venerdì 13 giugno 2008

L'ultima cena

Non è difficile immaginare un salone barocco, decorato con stucchi dorati e un affresco ovoidale nel centro del soffitto: appese alle grandi finestre tendaggi pesanti e cremisi e un enorme lampadario di cristallo a dominare la scena.
Guardo la punta delle mie scarpette color conchiglia calpestare il parquet lucido e ascolto il tichettìo che faccio per attraversare a passi brevi e veloci la sala e raggiungere l'unico posto libero rimasto. Tutti gli altri invitati sono già seduti e il silenzio imbarazzato sembra non esserci mai stato quando sorrido e prendo posto unendomi agli altri undici commensali che mi investono con il loro cicaleccio.
Mi guardo attorno: ci sono altri sei o sette tavoli rotondi identici al mio, per dimensioni e accuratezza con cui sono apparecchiati: tovaglia candida di broccato, sottopiatti d'argento finemente cesellati, bicchieri sottilissimi e quasi invisibili.
A dir la verità non lo so se la tovaglia sia davvero o no di broccato ma quando noto gli scontri tra le brocche in porcellana e tutto il resto del brocantage e quando alzo lo sguardo ad osservare l'affresco e mi accorgo che ritrae cavalli (brocchi?) spronati (broccati?) da un cocchiere in livrea mi dico che tutti gli indizi portano ad un'unica via: quella del damasco.
La smetto di giocar con le parole e provo a concentrarmi sulle persone che ho attorno e apparecchio la mia espressione perché non stoni con le ricercate vettovaglie e gli antipasti, i tovaglioli e la situazione.
Seduto alla mia sinistra c'è un vecchio vestito di tutto punto contraddistinto da un paio di baffi imperiali e imperlati da qualche goccia di Bordeaux che intravedo in controluce.
Accanto a lui è seduta una donna minuta, sulla trentina, capelli a caschetto anni '20 e sguardo penetrante e senza vergogna, vestita in vigogna; ha un piccolo neo disegnato a matita sul mento e gioca distratta con una ciocca. Proseguendo in senso orario incontro lo sguardo di un anonimo ragazzo incravattato ‘Marinella’, abbronzatura artificiale e brillantina accanto al quale siede rigidamente una ragazza con i polsi sul tavolo, pallida e con i capelli biondi raccolti in un sofisticatissimo chignon. Due bacchette giapponesi intagliate e lucidissime sono infilate nella crocchia come a formare una croce. Agganciate alle estremità dei campanellini tintinnano ad ogni movimento del capo.
In contrasto a questa coppia, due signori sulla cinquantina entrambi un po' sovrappeso visibilmente annoiati: lui appoggiato allo schienale e un po' sudaticcio (riesco a scorgere il riflesso del lampadario sulla sua calotta cranica), lei con un vestito a fiori rossi e viola, boccoli ramati ottenuti con l'arricciacapelli e spuma l'Oreal; il gomito puntato accanto al piatto per sostenerle il braccio che le sostiene il polso che le sostiene la mano sulla quale è abbandonato il volto dal trucco pesante ormai un po' colato. Grumi di mascara le incrostano gli angoli degli occhi.
Li separa da un trio piuttosto singolare un adolescente albino che fa palline con la mollica del pane: gli angoli della bocca piegati sembrano indicare un'infanzia trascorsa nel pianto.
Il trio, affiatatissimo, tanto che sembrano non rendersi conto degli altri presenti, è composto da una donna, al centro (maglione a coste grigio e sformato, con le maniche a coprirle le nocche, pantaloni larghi, scarpe da uomo e cappello da monello) e due uomini, ai suoi lati. Lei è come un punto di fuga per loro, un centro che calamita le attenzioni e gli sguardi di entrambi. Mi sembra di cogliere un frammento di una frase che l'uomo in gessato dice a quello con i baffi e senza cravatta: "…si consuma e nessuno se ne accorge", ma forse ho sentito male. Il primo tiene in mano il coltello, il secondo tormenta, mentre sorride, la falda del cappello in peltro che ha evidentemente deciso di non togliersi per tutta la durata della cena.
Alla mia destra siede una transgender: è spettacolare. Sento un brivido ogni volta che per caso si sfiorano le nostre braccia nude. Occhi obliqui e riccioli neri: uno schianto. Mi ipnotizza la sua pelle levigata e ammiro lo smalto color bronzo delle unghie delle mani e dei piedi, leggermenti troppo grandi rispetto al resto del suo corpo. Avvolta in un vestito in lamè mi versa il vino socchiudendo un po’ le palpebre quando il mio bicchiere si svuota.
Terminati gli antipasti, entra uno stuolo di lacchè supercoordinati e impomatati. Rapidamente sgombrano i tavoli e con grande pompa servono un piatto di portata enorme che sistemano al posto del centrotavola.
La scena si fa silenziosa. Le luci si abbassano di qualche decina di watt.
Tutti guardano il coperchio di metallo sistemato sul vassoio in attesa che sia scoperchiato.
Io gioco con il mio riflesso che, sulla superficie curva del coperchio, è deformato. La mia fronte sembra occupare la maggior parte del mio volto, il naso è scomparso e la mia bocca è simile a quella di un clown.
Sorrido e i miei denti sono quelli di una caricatura.
Mi sposto e mi trasformo in un Modigliani: il collo si allunga e la mia testa scivola oltre la curva della cupola argentata (o è silver–plate?).
Un rullo di tamburi arriva da chissà dove.
- Et voilà!, dicono all’unisono i lacchè che avevano la mano sul pomello del coperchio e con un gesto deciso mostrano a tutti noi il piatto forte della serata.
- Oh-ohhhh, faccio io, unendomi al coro con tutti gli altri.
- Kaì-kaì, fa il pincher nano che si svela ritto e vigile sopra al letto di insalata e pomodorini.

La prima a farsi sotto è la biondina dall’acconciatura nipponica. Si alza in piedi e fulminea impugna una forchetta e la pianta in una natica del cagnolino. Il grassone che le è seduto a fianco, sì è come rianimato e si adopera per aiutarla: con una mano tiene il cagnetto per la gola, con l’altra munita di coltello aiuta la ragazza a servirsi. La moglie si è tolta la mano dalla guancia, dove è rimasto un vistoso segno bianco, e attende che il marito aiuti anche lei. Il cagnolino guaisce e, per sbaglio, l’omone sudaticcio libera la presa e la preda si divincola e muove qualche passo sulla tovaglia immacolata lasciando impronte rossicce di salsa in corrispondenza dei cuscinetti delle sue zampine.
E’ il ragazzo albino, con braccia inaspettatamente lunghe, a sporgersi nel centro del tavolo, ad acchiappare il piccolo pincher e a riposizionarlo sul piatto. Adesso le sue zampe tremano e il guaito si fa più disperato: riesco a sentirlo malgrado il tifo da caccia alla volpe che si è creato nella sala.
Io sono inebetita. Non me lo aspettavo di certo questo risvolto venatorio. Cerco nel mio vecchio vicino che ho sulla destra uno sguardo di rivolta. Mi alzo in piedi.
Il vecchio mi invita a risedermi e si mostra comprensivo:
- Fa sempre un certo effetto la prima volta - mi urla nell’orecchio per sovrastare le voci dei commensali - Ma non si distragga, stia attenta. Ci siamo quasi.
- Non capisco cosa… , provo a dire ma il rumore è talmente alto che non riesco a sentire la mia voce.
Intanto i camerieri passano portando piattini colmi di patate e broccoli di contorno.
Osservo, con orrore, tutte quelle persone nutrirsi di cane.
Vivo.
Un rivolo si sangue ha cancellato il neo finto sul mento della flapper che si agita cercando di infilare la forchetta fra le costole del cane. Il ragazzo abbronzato mastica senza ritegno a bocca aperta ed anche il terzetto fa la propria parte anche se con un po’ più di calma e discrezione.
L’adolescente, come chiuso in una bolla di indifferenza, con le sottili dita diafane porta alla bocca alternativamente un pezzettino di carne (che la moglie del grassone gli ha messo maternamente nel piatto) e una pallina di pane e guarda di sottecchi la transgender che è rimasta, almeno per il momento, ancora a bocca asciutta.
Cerco di parlarle ma, quando vedo che anche lei allunga davanti a sé forchetta e coltello e nel momento in cui mi rendo conto di quanto siano aguzzi i suoi canini, rinuncio.
Mi alzo ancora in piedi ma il vecchio mi trattiene per il braccio:
- Ecco, ecco! Stia a guardare! E’ questo il momento esatto in cui si spegne!
Il piccolo pincher barcolla, gli occhietti gli si fanno di vetro e si accascia. Il musetto va a finire a scomporre il piattino di patate dell’uomo col cappello.
E allora io mi volto e a rotta di collo mi precipito verso l’uscita e discendo la scalinata d’onore così velocemente da accorgermi soltanto in fondo di aver perso una scarpetta-conchiglia.
Mi giro solo un secondo, giusto il tempo di cogliere una sagoma in lamè, china su un gradino, nell’atto di raccogliere la mia scarpina.
Me la lascio alle spalle e scapicollo verso il parcheggio, alla ricerca della mia zucca.