lunedì 8 giugno 2009

DALLO SCRANNO

“Raccontane un'altra, Tent”. Ma per quella sera, avevo finito il parco storielle.
Allungai un'altra volta il bicchiere e Oscar lo riempì fino all'orlo. Nel volo tra il bancone e la mia bocca, tre gocce si depositarono sul legno nero. Cambiavano colore in accordo alle ghirlande di lucine Intermittenti.
Rosso. Giallo. Blu Verde. Buttai giù tutto in un sorso. Rosso. Giallo. Blu. Verde.
Basta poco a volte per far innervosire un uomo.
La musica era bassa e tutti si voltarono sentendo lo stridere del mio sgabello contro al pavimento alla genovese mentre me ne andavo senza salutare. Ed anche senza pagare visto che quel buco, almeno per il momento, era mio.
Gli sguardi e i sorrisi ghignanti alle mie spalle mi solleticavano la nuca. Ero pur sempre un nano che scendeva da uno sgabello.
Per quanto potessi sforzarmi in un passo sicuro o in un'espressione cazzuta, non riuscivo a sdrammatizzare l'aria da fenomeno da circo che mi portavo appresso.
Neppure sbattermi la porta alle spalle sarebbe servito a qualcosa, ma ho sempre amato i gesti gratuiti. Mi aiutano a vivere meglio.
Fuori, ci saranno stati 40 gradi. Le suole delle scarpe si appiccavano all'asfalto. Non avevo idea di dove andare. Volevo solo allontanarmi da quei quattro alcolisti e scioperati che infestavano il mio bar.
Passò l'autobus 77 e lo presi, quasi senza pensare. Viaggiavo senza biglietto. Nel paese da cui provengo è un reato penale. Non riuscii a rilassarmi per tutto il percorso. L'autobus era lento.
Scelsi un posto davanti in modo da poter vedere, oltre i vetri sporchi, le pensiline delle fermate qualche secondo prima di arrivarci. Non vedere un gruppetto di controllori all'orizzonte pronti a braccarmi mi dava qualche istante di sollievo che svaniva immediatamente dopo aver superato la fermata.
I miei coni e i bastoncelli allora si irrigidivano nuovamente nel disperato tentativo di anticipare la mia umiliazione.
Nano, straniero e senza biglietto: una vera leccornia per cani neri in cerca di capri.
L'autobus giallo uscì dalla città e la guida dell'autista si fece più dolce. Campi verdi a destra e a sinistra. Lì, l'estate non era riuscita a cuocere tutto. Mi sentii un po' sollevato lontano dalla polvere e l'odore di catrame.
Il capolinea era un cimitero.
Alzai lo sguardo oltre il muro di cinta che lo circondava.
Era per lei che ero arrivato sin lì: me ne resi conto solo quando la vidi.
Ottagonale, di mattoni d’argilla rossa, la torre dell’abbazia risaltava contro l’azzurro acciaio del cielo. Tre volumi sovrapposti l’uno sull’altro dal più grande al più piccolo come una torta nuziale sudamericana.
Bifore, trifore e colonnine bianche. Un cono, come il copricapo di Mago Merlino, sottolineava il suo aspetto medioevale.
Era per lei che ero arrivato fino a lì e mi aveva deluso.
Oscar me ne aveva parlato molte volte, come si parla di una meraviglia, di qualcosa che non si dimentica più. Non si può morire senza averla vista, diceva. Ed io, idiota, gli avevo creduto. Avevo dato credito al giudizio di uno che aveva, per un verso o per l’altro, passato la sua vita in cattività e che stava finendo i suoi giorni di vecchio, rinchiuso nel buio di quel cesso che era il mio bar.
Era domenica, era agosto e chissà a che ora sarebbe passato un autobus per riportarmi da dove ero venuto. Bestemmiai nella mia lingua natale ed entrai nel cimitero. L’afa è un concetto che ho imparato a Milano. Magari avrei trovato un po’ d’ombra
In fondo al vialone centrale, c’erano due querce. I rami dell’una e dell’altra si incontravano e formavano una breve galleria verde sul fondo del campo santo.
Da uno di quei rami pendeva un uomo. Un cadavere. Un impiccato.
Pensai per un attimo che avesse scelto di mettersi lì appositamente per me.
Io proseguii lungo il viale. Lui aveva le braccia lungo il corpo e i pugni stretti. Mi piaceva l’atmosfera che creavano i canti dei grilli e delle cicale. Un paio di passi e riuscii a vedere che indossava jeans neri e una maglietta da surfista. Il rumore della ghiaia bianca che spostavo camminando con i piedi mi fece venire in mente qualcosa, ma non riuscii ad afferrare il ricordo. Vedevo la suola gialla fosforescente di una scarpa da ginnastica. La stringa slacciata. L’altra scarpa invece era a terra. Doveva essersi sfilata mentre le gambe scalciavano in ribellione alla sua scelta. Il caldo diffondeva l’odore forte dei fiori appassiti. Ora potevo leggere la scritta che aveva sulla schiena: “Charlie don’t surf”. Un angolo della mia bocca si piegò all’insù mio malgrado. And I think be should. Arrivai fin sotto a lui. Un alone scuro di sudore gli appiccicava al dorso la maglietta verdina. Magari è ancora vivo. Gli girai attorno in modo da poterlo guardare in faccia. Il mento appoggiato ad una spalla. Due mosche banchettavano sui condotti lacrimali degli occhi strizzati. No, è stecchito. .La lingua gonfia e viola gli fuoriusciva dalle labbra bianche.
Guardavo dal basso quel corpo appeso. La scarpa e il calzino del ragazzo sfioravano quasi il mio naso. Una goccia di qualcosa cadde dal suo volto al mio. Forse era saliva. Doveva essere morto da poco.
Anche mio padre aveva deciso di farla finita così. Mi dovetti sedere. Proprio lì accanto c’era una panchina di quelle fatte mischiando sassi al cemento, bassa abbastanza da poter toccare il suolo con i piedi, da seduto.
- Pronto… Oscar, la mano con cui tenevo il cellulare mi tremò.
- Stai male? Stai calmo che arrivo, mi rispose subito lui. Era un tipo sveglio, anche se a vederlo non lo avresti mai detto.
- Mhm.
- Dove sei?
- Chiaravalle.Tu.Cimitero, due fitte intercostali mi presero tra una parola e l’altra.
- Arrivo in 10 minuti. Stai lì.
Non feci in tempo a ringraziare Dio di avermi concesso almeno un amico, che dovetti tirare giù un paio di saracche: una donna dondolava appesa anche lei al ramo più alto dell’albero di fronte, dalla parte opposta del vialetto. Le fronde l’avevano tenuta nascosta alla mia vista fino a quel momento.
Adesso potevo vederla di profilo: riccioli rossi, naso da corvo intonato al vestito. Occhi e bocca spalancati in un urlo muto. Polsi legati dietro la schiena.
Dio mi chiuse la bocca con un conato. Il fiotto giallo e acido mi schizzò di rimbalzo le Superga bianche.
Chiusi gli occhi. Ascoltai i muscoli irrigidirsi, mi lasciai cadere e prima di aver toccato il suolo mi dimenticai di me.
Quando ripresi conoscenza avevo un fazzoletto ripiegato tra i denti. Ringraziai mentalmente Oscar: la mia lingua era salva.
Sbattei un paio di volte le palpebre e lui smise di mormorare cipensoiocipensoiocipensoio.
Mi sorrise e mi tolse quella roba intrisa di bava dalla bocca.
- Puttana Eva, disse – non posso lasciarti da solo nemmeno un minuto. Il suo fiato caldo da a alcolista mi fece rinvenire completamente.
Gli indicai il cadavere della donna.
- E’ la becchina, mi disse lui con noncuranza.
- Cosa?
- E’ la becchina. La schiattamorti, la vespillona, la ne-cro-fo-ra!
Quando faceva l’erudito con me lo disprezzavo.
- Ho capito, idiota! Sono romeno, non sono ritardato. Come fai a dirlo?
- Non lo dico lo so. La conoscevo. E’ in questa abbazia che stavo, quando ero monaco.
- Ah, è vero. Fammi alzare, adesso.
- Alzare…, ghignò – non ho imparato a fare i miracoli in seminario.
- Dai aiutami, bastardo.
- In che casino ti sei infilato? , mi chiese quando fui in piedi.
- La tua stramaledetta torre. Quei falliti al bar.
Dopo quegli attacchi per un po’ non riuscivo che ad esprimermi a frammenti.
- Va be’. Cosa facciamo adesso?
- Andiamo a casa, farfugliai aggrappandomi al suo braccio.
- Ma dobbiamo avvertire qualcuno, la polizia…
- Seh, come no. Tu sei matto. Già che ci sei chiama anche quei geni dei Ris di Parma così va a finire che l’omicida sono io. Quelli incasinano sempre tutto.
- Omicida?
Iniziai a stare meglio. Il sole si era abbassato e un po’ di brezza muoveva le foglie. Mi sembrava di riuscire a respirare. Sarei stato una meraviglia lontano da lì.
- Lei ha i polsi legati, non vedi? E’ stata un’esecuzione. Andiamocene via prima che qualcuno ci trovi qui.
- Ma chi avrebbe voluto fare del male a questi due? Erano una coppia tranquilla.
- Oh, sì, tranquillissima. Queste cose succedono nelle migliori famiglie. Quindi conoscevi anche lui?
- Un bravo ragazzo…, mi disse. Le sue spalle si fecero ancora più spioventi del solito.
- Certo, certo. Bravissimo, gli risposi sempre più seccato - così tanto che ha pensato bene di appendere per il collo la sua baldracca a un albero. Bravo, davvero bravo.
- Era sua moglie.
- Tanto peggio, dai muoviti! Andiamo!
Lo tiravo per il braccio ma lui rimaneva impalato come un dolmen.
- Carla chiuse con me per sposare lui.
Alzai lo sguardo per guardare se stava scherzando. Dal punto in cui ero vedevo svettare sia lui che la torre dell’abbazia. Non scherza, porcamignotta, non scherza. La becchina era stata una sua ex. I due cadaveri dondolavano neri, in controluce.
- Andiamo, ti ho detto! Andiamo,
Quando fummo in macchina lui non parlò per un bel pezzo. Io guardavo la strada srotolarsi a ritroso rispetto al percorso che avevo fatto venendo. I finestrini della sua auto erano maniacalmente detersi. Sapevo che metteva Lisoform nel serbatoio dell’acqua dei tergicristalli. Da quando lo avevo assunto, per gestire il mio bar, quella bettola profumava di pulito ed io avevo imparato a coniugare il verbo detergere.
- Devo passare a prendere Tina, disse ad un certo punto dopo aver gettato un’occhiata all’orologio e stringendo più forte il volante.
- Lo sai che non mi piace, il tono della voce mi uscii un po’ piagnucolante e mi pentii di aver aperto bocca.
- Non deve di certo piacere a te.
Tina ci stava aspettando davanti al portone di casa sua, in Via Ripamonti.
Appena ci vide incrociò braccia e sopracciglia e si mise a masticare la gomma ancora più sguaiatamente del solito. Salì in macchina sbattendo la portiera posteriore più forte del necessario. Sapeva tre parole d’italiano ma era bravissima a far cogliere a tutti il suo disappunto.
- Solo dieci minuti di ritardo, non è il caso di essere arrabbiata, le disse Oscar voltandosi e infilando la faccia fra i due sedili anteriori per darle un bacio sulla bocca color prugna - non devi timbrare il cartellino.
- Nano!, disse lei ed io dovetti frenare l’impulso di saltare sul sedile posteriore, sfilarle una scarpa di vernice rossa e colpirla ripetutamente sul muso con quel tacco dodici fino a cavarle gli occhi porcini.
Alzai invece il volume della radio e incrociai le braccia. Poteva impastarsi di trucco quanto voleva ma non sarebbe mai riuscita a cancellarsi quell’espressione da contadina russa dal volto.
Grazie al Dio di Oscar il tragitto fu breve. Poco traffico all’ora di cena in città, ad agosto.
La scaricammo sulla circonvallazione, all’altezza della Centrale del Latte tra una nigeriana troppo magra e una messa bene, ma con la faccia da zingara.
Al primo semaforo che incontrammo azzardai: - Certo che la tua collezione di donne è davvero patetica: becchine, mezze matte… Ed ora una zoccola.
Ridevo, ma lui non trovò la mia uscita divertente e me lo disse. Poco dopo mi lasciò davanti a bar e sgommò verso casa sua.
Rimasi solo ed entrai nel retro. Là avevo sistemato un letto singolo, un armadietto e appeso alla parete qualche poster. Era la mia stanza, la mia casa.
Cominciai a prendere a calci il letto, con violenza, più forte che potevo fino a quando non fui così esausto da gettarmi così com’ero tra le lenzuola grigie.

Presi subito sonno dimenticandomi di inventare storielle per il giorno dopo.