venerdì 14 dicembre 2007

giovedì 8 novembre 2007

Analisi

(ovvero: che il rompetelerighe dia fiato al fetale)


Allogeni impulsi
dilaniano – opposti - il corpo
d’armata.

L’acefala mostra
allo Specchio il conflitto:
battaglioni-abbattuti-da-fuoco-fratello
cortina di ferro
battuto.

Tremilaseicentoeurolanno.

In questa stretta città di pollo
servito con glam, in bicchiere e cristallo
in verde velluto
di culla
ripiego.

giovedì 11 ottobre 2007

La Figlia dell'Echidna


Qualcosa si è inceppato nel meccanismo.
Mi sveglio con questa sensazione un paio di minuti prima che la sveglia suoni; fuori è ancora buio. Vorrei potermi rigirare nel letto ma sono alla fine dell’ottavo mese. Emetto un sospiro e rimango a pancia all’aria: una tartaruga rovesciata alla ricerca di un riassetto.
Nessuno verrà in mio aiuto.
Chiudo gli occhi per vedere se il denso del sonno dal quale sono stata espulsa sia in grado di riassorbirmi e, per un attimo, mi illudo. Poi, però, il latrato della sveglia mi ricorda che il mondo esiste, e non solo: si aspetta anche che io contribuisca a portarlo a compimento.
A piedi nudi, io e la mia creatura, ci trasciniamo lentamente verso il bagno, senza il coraggio di guardarci nello specchio.
Qualcosa non funziona: gli orologi di Leibniz non sono sincronizzati. Dico alla gamba fai un passo e lei esegue solo dopo qualche secondo. Ho la pelle d’oca, ma non sono brividi: è paura.
Con una mano mi appoggio alle piastrelle. Un’ epiglottide di buio mi risucchia in un non-luogo, senza sopra e senza sotto, senza tempo e senza spazio, fino a quando sento chiaramente la mia fronte battere sul bordo del lavello. Il pavimento è sudicio e freddo.
Nessuno verrà in mio aiuto.
Devono essere passate ore perché, dal punto in cui sono, con la testa incastrata tra la vasca da bagno e il cesto della biancheria sporca, l’angolo di cielo che riesco a vedere, oltre il vetro impolverato della finestra, ha il colore del mezzogiorno.
Faccio leva con una mano sul bordo della vasca per alzarmi mentre con l’altra mi tocco la fronte in cerca di una ferita che non trovo. E’ solo una botta, niente di grave. Mi rialzo piano piano.
Mi accorgo che un liquido trasparente e rosato mi appiccica la camicia da notte alle cosce e alla pancia. Mio dio, non può essere niente di troppo grave se sono qui in piedi e non sento dolore. Bisogna comunque che io chiami qualcuno. Ospedale. La prego. Dottore. Mi aiuti. Si saranno rotte le acque, sarà solo arrivato il momento. Non è niente, non è niente questo umore che mi cola tra le gambe, Non guardare, non guardare. Guarda.
Le mani tremano quando alzo la camicia e mentre sento di sentirmi un po’ più vuota. Qualcosa è fuoriuscito da me, dal mio corpo: è il cordone ombelicale gelatinoso e opalescente alla cui estremità è appesa una piccola sacca fatta della stessa materia vischiosa. E’ troppo piccolo per poter essere mio figlio. La prendo in mano e cerco di individuare nel liquido lattiginoso un cuoricino che batte.
Lo vedo. E’ troppo piccolo per poter essere mio figlio. Tre o quattro centimetri al massimo. Rosa e rosso. Ripiegato su sé stesso. Riesco a distinguere la testa. Gli occhietti. Il becco.
“Pronto intervento, mi dica”.
“Ho partorito. Qualcuno mi aiuti; è troppo piccolo per poter essere mio figlio!”

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La voce acuta di Zeta rovina nel silenzio come una slavina: “L’ennesimo esempio di informazione fasulla e deformante!”, urla lanciando il giornale contro il muro della stanza d’ospedale in cui sto da quasi due settimane. Il letto accanto al mio è vuoto. Devono aver pensato che avrei apprezzato l’assenza di una compagna di stanza al settimo cielo per la sua buona e personale novella o, più probabilmente, devono aver pensato che la mia presenza sarebbe stata motivo di incubi deleteri per una neomamma in giubilo.
“Lascia perdere, non mi interessa”, le rispondo con stanchezza, voltandomi verso il muro malimbiancato.
“Non ti interessa? Non ti interessa?!”, fuori di sé, Zeta recupera dal pavimento il quotidiano: ”Parlano di te, qui, in prima pagina!”. Colpisce quattro volte con il dorso della mano il giornale e poi lo fa cadere di nuovo a terra. ”Ti chiamano Echidna…sai chi era Echidna?”. Lo dice di gola, esasperata.
“Non mi interessa, ti ho detto”. Smetto di fissare il muro e mi volto nella sua direzione: è paonazza. Non si è messa l’ombretto e i suoi capelli sono in disordine. La conosco da anni ma in questo stato non l’ho mai vista.
“Associano quello...che…ti è successo, agli embrioni chimera, alla fecondazione assistita, alle clonazioni! Hanno fatto di te un pretesto per diffondere pregiudizi ignoranti sulla ricerca scientifica e sull’etica. Ti stanno usando e a te non interessa!”.
“Non sono mai stata brava a pensare al mondo prima che a me stessa, lo sai“. Lo dico a voce bassa ma con rabbia; me ne pento subito, si vede che ci è rimasta male: “ Tu… io… è che non so che cosa fare”, esita e si appoggia al comodino in truciolato, laccato di azzurro.
“Piangi per me, per favore. Io non ne sono capace. Ecco quello che devi fare”, le dico. Ogni mia parola è un fruscio.
Si siede sul letto e mi prende la mano. Osservo le sue rughe nuove e i vestiti vecchi. Non riesce nemmeno a guardarmi negli occhi.
“Vai via, non mi servi”.
Si alza e scompare.

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Quel che mi serve adesso è un filone di pane. Mi servono anche un paio di pomodori, mais, olive e qualcos’altro, da mettere nell’insalata. Il supermercato è affollato. Mi sembra strano trovarmi in mezzo a tanta gente; da più di un mese non uscivo di casa.
Spingo il carrello fra le corsie e mi fermo ad ogni etichetta ‘Offerta Speciale’. Mi suona così strana questa dicitura. ‘Offerta Speciale, Offerta Speciale. Offerta Speciale. Rimango appesa ad un pensiero: qualcuno deve pur aver inventato questo modo di dire. Speciale. Dicitura. Ogni parola che penso mi suona come straniera.
Ho bisogno di tutto perché ho il frigo vuoto da giorni. Mia madre non sta bene e non è passata questa settimana coi viveri e i buoni consigli. L’ultima volta ha lasciato un breviario e lasagne nel forno.
Mi blocco davanti al banco del pesce. Una sogliola ai ferri, magari. Prendo il numerino e mi guardo attorno. Paziente, mi metto in fila ed aspetto pensando ad un buon vino da abbinare.
Qualcuno mi tocca la spalla. Mi giro di tre quarti sperando in un errore: “Buongiorno, è da un po’ che non la vedo”. Chi mi parla è una donnina sorridente. E’ la proprietaria dell’edicola del mio quartiere, una cinquantenne un po’ stempiata, sempre gentile e bendisposta a chiacchierare con chiunque le capiti di incontrare.
“Buongiorno”, rispondo senza tono e guardo il contenuto del mio carrello in cerca di un convenevole qualunque.
“Ha visto quanta gente?”, mi risponde senza accorgersi del fastidio che non mi curo di occultare e continua: “E’ che domani è festa e sarà chiuso. Io torno adesso dal mare e ho tutto da comprare. Mai che mio marito mi dia una mano in casa! Penso sempre a tutto io. D’altra parte questi uomini…”. Prende fiato e ignorando il mio silenzio insiste: “E lei? Come va?”. Proprio non ce la fa a non posare lo sguardo sul mio addome, ma apprezzo il tentativo.
“Benissimo, grazie“. Mi sforzo appena in un sorriso, mi tolgo dalla fila, afferro da uno scaffale due buste di salmone affumicato e, piegando il capo come ad abbozzare un saluto, passo oltre.
Svolto nella prima corsia a sinistra e aggiungo al carrello due vasetti di yogurt alla frutta, una scatola di cereali, poi giro a destra, afferro due birre e, infine, una scatola di Tampax.
Non guardo in faccia la ragazza alla cassa mentre pago e faccio finta di aver fretta.
La borsa della spesa non è troppo pesante. Mentre cammino verso casa riesco a fumarmi una sigaretta. Il sole è tiepido ed ho voglia di sentirmelo in faccia. Taglio per il parco e mi siedo, a finir di fumare, su una panchina.
Un uomo è fermo davanti al prato con un guinzaglio in mano. Sembra fissarmi. Mi scappa dalla bocca: “E’ troppo piccolo per poter essere mio figlio”. Non sono sicura di aver parlato. Forse non ha sentito. Io ogni caso prendo la spesa e, di corsa, me ne vado.
Ancora pochi metri e sono a casa.
Li ho visti già dal fondo della strada. Metto gli occhiali scuri e mi faccio largo tra i giornalisti che mi chiedono che cosa provo. Non sono domande da fare. Lasciatemi in pace. Perfavore.
Chiudo il cancello ed entro in casa.
Apro il frigo per sistemare la birra. Non ti ho nemmeno dato un nome. Lascio aperto lo sportello, prendo il cellulare e chiamo l’ospedale: “Vengo a prenderlo domani”.
“Nessuno le ha ancora detto che è una… femminuccia?”

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“Lo so che hai paura, bambolina”. Le passo la mano tra i capelli e cerco di rassicurarla con un sorriso.
“E allora se lo sai, perché ci devo andare? Sappiamo cosa succederà”, mi rimprovera, seria, la sua vocina.
“Non possiamo saperlo, per questo devi entrare. Non sarà così terribile”. Mi accorgo che sta tremando e non sono più sicura di ciò che sto facendo. Forse dovrei mettere in moto la macchina e riportarla a casa, al sicuro; e invece le dico: “Devi abituarti a loro. Non puoi startene sempre per conto tuo”. La accarezzo di nuovo e proseguo, come se fosse la cosa più normale del mondo: ”E loro devono abituarsi a te”.
Le trema la voce e stringe forte i pugni quando mi chiede: “Perché?” e i suoi: “Non voglio, non voglio!” sono una supplica che mi stringe il cuore
“Piccolina, devi andare. E’ giusto così. Fidati di me. Ti farai tanti amici e imparerai milioni di cose nuove”.
“Tu sei mia amica e potresti insegnarmi tutto tu…”.
“Vengo a prenderti alle 12.30. Sarò qui che ti aspetto. Avanti, andiamo, ti accompagno. E’ tardi”. Scendiamo dalla macchina e le prendo la mano. Sento le piume morbide che ha sulle nocche arruffarsi: è segno che è arrabbiata con me. Non parliamo più mentre attraversiamo il parcheggio davanti alla scuola. Non vorrei farti soffrirei, colombella, ma cos’altro posso fare? Ci avviciniamo alla piccola folla di mamme e bambini in grembiulino che al nostro passaggio si zittiscono. Due o tre bambini ci indicano. Siamo abituate a questo, possiamo farcela, non è così terribile. Saliamo le scale. Sono quindici interminabili gradini in cima ai quali c’è l’ingresso della scuola. Una maestra ci sorride e, stoica, maschera la sorpresa con sforzi sovrumani. Eppure dovrebbero averla avvertita. “Eccoci”, le dico. “Prima B, da questa parte”, trilla stucchevole senza bisogno di consultare la lista, indicandoci una fila di bambini ammutoliti. Mi chino verso la mia bolina de nata e le sussurro ancora: “Non sarà così terribile. Vai”. Lei mi pianta gli occhi negli occhi come fa sempre, quando mento.
Si volta e mi punisce col silenzio.
Decido di trascorrere le quattro ore che mi separano da lei con le mani appoggiate sul volante mentre la penso intensamente. Mi illudo così di sostenerla e di farla sentire, in qualche modo, meno sola.
Sono le 12 e trentun minuti quando la vedo sbucare dal cancello e correre più forte che può verso l’auto. Lo zainetto rosa che ha in spalla le impedisce i movimenti. Lo abbiamo comprato appena tornate dal Portogallo, nello Store delle Winx che hanno aperto da poco, in centro. Penso a quando ridevamo come matte, una volta uscite dal negozio, imitando l’espressione che aveva la commessa: ci fissava allucinata come fossimo ectoplasmi. Non ci interessavano i pensieri che la gente faceva su di noi. Eravamo insieme ed eravamo forti. Eravamo felici. La scuola era soltanto nebbia all’orizzonte ; forse, avvicinandosi, si sarebbe dissipata.
E invece il momento era arrivato, solido come cemento. Seduta sul sedile a braccia serrate tenta di trattenere i singhiozzi.
“Perché mi hai messo al mondo, mamma?”, bisbiglia, “Eh mamma, perché?”

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Mi sveglia il jingle dell’edizione straordinaria del telegiornale. Ormai è un’abitudine addormentarmi davanti al televisore acceso. Cerco sul tavolino la tazza del the, tra la lampada e il giornale, ma sento che ormai si è raffreddato.
Batto le mani ed accendo le luci di questa nuova Domotica, questa casa automatizzata, che mi ha regalato mia figlia. Voglio alzarmi e prepararmi qualcos’altro di caldo. In questo bunker tecnologico e protettivo sarebbe sufficiente parlare ad alta voce e l’acqua si metterebbe a bollire, ma io conservo i miei riti e l’idea di parlare con una casa prosegue, benché io ci abiti già da un anno, ad apparirmi ridicola.
Attira la mia attenzione il volto dello speaker che appare sul monitor: è teso e la sua voce è allarmata. Mio dio, cos’altro è successo stanotte? Mi blocco in mezzo alla stanza con il mug gelido in mano. Il paese è dilaniato da una vergognosa guerra civile e la strategia del terrore e tornata, ancora una volta, di moda. C’è chi si difende accumulando denaro soddisfacendo la richiesta di raffinatissime magliette, veicoli di slogan luccicanti. La gente urla nelle piazze: “Habere non haberi”, ma anche: “Tiocfaidh àr là” e non sa, davvero non sa, quel che dice. Due settimane fa, quindici persone sono state calpestate dalla folla, troppo intenta a scandire “I have a dream” per prestare attenzione ai gemiti dei corpi sui quali marciavano a tempo dei tamburi battuti da chi faceva da controcanto sillabando: “Mai mulà, Tegn dur”. La vita è triste e incomprensibile, di questi tempi, e non solo. Ma questa non è una notizia da edizione straordinaria. Abbiamo smesso da tempo, noi telespettatori, di allarmarci di questo stato di allarme costante. Infatti lo speaker farfuglia sconvolto di qualcosa di diverso, di qualcosa che riuscirà a far gemere di orrore noi cittadini abituati ormai a tutto, di un omicidio abominevole ed efferato, così ingiusto da spalancare all’unisono gli occhi e le bocche di noi, amiche e amici da casa. Deve essere stato assassinato qualcuno di importante perché, di omicidi qualunque, i media hanno smesso di parlarne da anni.
Mi riaccomodo sulla poltrona in attesa di sentire il nome della vittima illustre. Mi preparo: sarà un duro colpo.
Non riesco a seguire il preambolo del giornalista: forse è la tensione o forse sono le bio-onde emesse dalla mia casa intelligente a interferire con il mio apparecchio acustico che emette un crepitio intollerabile. Lo spengo ed attendo che le immagini sostituiscano il silenzio.
Appaiono sequenze di repertorio, che ritraggono Eva, mia figlia, su fondali di cui già sono al corrente: ospedali, scuole, campi di nomadi o profughi e su un palco acclamata dalla folla, l'8 dicembre appena trascorso. Mio dio, cos’altro è successo stanotte?
Sullo schermo compare il titolo del servizio: “Assassinata il candidato alla presidenza della Società delle Nazioni”.
La tazza mi sfugge di mano. Cade sul pavimento e si rompe a metà lasciando il poco the rimasto libero di infilarsi tra gli interstizi ecologici delle piastrelle in carbonato di calcio.
Provo a seguire il movimento delle labbra cocciniglie dell’ inviata Speciale, appostata all’ingresso della casa di Eva, per carpire qualche parola di smentita.
Il filo della mia speranza cede, quando la telecamera zooma impietosa sulla lettiga che fa capolino dalla porta di casa che si apre, curiosamente, verso l’esterno.
Vedo i boccoli biondi di Eva ciondolare dalla barella spinta verso il cortile da due uomini in camice bianco. Non vedo nient’altro di lei perché è stata con cura coperta da un compassionevole lenzuolo.
Per qualche secondo i miei pensieri rimangono inceppati in quei cardini innaturali, montati al contrario, come si monta, a favor di pubblico, un set teatrale.
La macchina da presa indugia sul braccio scivolato da sotto il lenzuolo a causa dei movimenti sussultori che, la lettiga e il corpo, subiscono nello scendere dai quindici scalini dell’ingresso della casa di Eva.
E’ il primo piano su una nocca piumata a far sgorgare, dopo 35 anni, il mio pianto.

domenica 7 ottobre 2007

La Blatta

"Passo ore davanti al pc perché il mio mestiere è fingere di lavorare. Non so esattamente perché mi abbiano assunto e non sono sicura che in azienda esista qualcuno che ne abbia un’idea, seppur vaga. Quello che so è come fare per non avere problemi. Sto seduta più che posso, sorrido a chi mi saluta e dissimulo le frequenti pause sigaretta o caffè grazie al semplicissimo e celeberrimo trucco del foglio in mano: se tieni in mano un foglio, possibilmente non bianco, ma va benissimo anche una cover di fax, puoi essere sorpresa a chiacchierare con chiunque, in qualsiasi corridoio, in qualsiasi settore della società e nessuno (ma davvero, nessuno!) potrà mai dirti niente, perché così facendo insinui nell’altrui coscienza il ragionevole dubbio".
Racconto del mio lavoro a mio padre, così, senza pause (ribadendo il concetto tre volte fino a che non lo vedo assentire, vizio genetico che non sono ancora riuscita a sradicarmi), un venerdì pomeriggio mentre il sole che si infila tra le persiane ci illumina le mani appoggiate sul tavolo, in cucina.
Lui ride e scuote la testa incredulo. Io ovviamente sto esagerando: la tattica del foglio non la uso quasi mai, perché la trovo ridicola ma quando la vedo applicata dagli altri devo dire di riconoscerla una tattica efficace.
"Ma come è possibile?". Mi chiede.
"Eh, non lo so", dico, ma ricordandomi che lui non sa niente di niente del mio mondo lavorativo, senza paura di essere smentita, butto lì un: "Vedi, la causa sta nella struttura a livelli: dal vertice non si arriva a scorgere l’attività dei servi della gleba." E con le dita faccio perversamente il gesto di virgolettare “servi della gleba”, che so lo farà intimamente innervosire perché infastidisce anche me vederlo fare.
"Le figure intermedie", proseguo, "hanno come unico scopo quello di poter far figurare sul proprio curriculum che gestiscono il numero più alto possibile di risorse umane (sì, sì, usano queste parole e non se ne vergognano neanche… io sono una risorsa.. umana! Ci sono i cespiti e ci sono le risorse). Quindi: più risorse umane = più prestigio. Tendono così a riempire gli uffici di gente che poi si ritrova per la maggior parte del tempo a non aver altro da fare che sfruttare l’Adsl aziendale".
"L’Addiesse….?", mi chiede mia madre sorridendo, ma già l’ha intuito che si tratta di Internet, questo sconosciuto. Senza aspettare risposta ci mette davanti il caffè e mi chiede se li voglio, i biscotti.
Naturalmente non li rifiuto. Questo venerdì sono i biscotti allo zenzero quelli che vendono all’Ikea e io li adoro.
Si siede e la guardo: è appena tornata dal parrucchiere ed è truccata. La trovo bella e glielo dico. Ha gli occhi verdissimi e mi sembra tranquilla. Lei, come da copione, si schermisce. "Sono ingrassata", dice e guarda di lato.
Con la mano sinistra si scosta i capelli tinti di biondo dalla fronte.
Mi chiedo cosa provino loro, che si sono schiantati di fatica anni e anni, ad ascoltare una che racconta divertita di percepire uno stipendio senza dover fare un vero lavoro. Forse tirano mentalmente un respiro di sollievo nell’apprendere che alla loro figlia non è capitata in sorte la loro stessa sventura o forse trabocca loro la bile, al pensiero che c’è gente che ha la vita così facile.
Io spero che loro ne siano contenti anche perché è proprio per questo che vado a trovarli il venerdì pomeriggio: per far loro vedere che tutto fila liscio, che sto bene, che sono felice.
Credo che se la bevano, anche perché studio accuratamente il mio look quando esco la mattina, se è giorno di ‘visite’. Non vorrei mai che mia madre mi trovasse sciupata o imbruttita. Si angustierebbe per giorni scovando segni di infelicità dietro a un trucco un po’ sfatto o ad un vestito un po’ scolorito.
Quel giorno io sono appositamente uno splendore: ho un vestito rosso che dissimula le magagne, tacchi alti e colorito abbronzato. I capelli mi sbarluccicano per via del nuovo balsamo alla seta. Sono perfetta e devo ammettere che mi madre ha in qualche modo ragione. L’umore influenza l’aspetto così come l’aspetto influenza l’umore. Quasi quasi mi sento davvero felice.
Spronata da mio padre, finisco finalmente di bere il mio caffè che ormai è diventato freddo a furia di girarlo (nessuno sa spiegarsi come mai io abbia la necessità di girarlo così a lungo prima di berlo) e mentre appoggio la tazzina sul piattino, suonano alla porta.
Mia madre si alza ad aprire e dice: "Sarà lo zio a quest’ora", fa ruotare la serratura e apre con un gesto veloce, sicura di trovarlo lì fuori. Strano però che non abbia suonato prima il citofono.E infatti non è lui. Fuori dalla porta non c’è nessuno. Mia madre si sporge un po’ per assicurarsi che non ci sia davvero personne sul pianerottolo. Dal punto in cui sono la osservo. Mio padre dà le spalle al salotto, io invece, dal tavolo a penisola, posso vedere tutto il soggiorno e la porta d’ingresso. L’appartamento dei miei è carino, ma non è molto grande.
Lei richiude la porta e torna verso di noi: "Uno scherzo", dice. Sorride ma è un po’ perplessa. Mentre sta per sedersi, di nuovo, suonano alla porta.
Il suono è prolungato. Troppo prolungato. E’ quasi allarmante.
Mio padre si alza nervoso, va lui ad aprire, con la voglia già di litigare con un vicino o con lo sconosciuto che si diverte con così poco. Quando tocca la maniglia il campanello sta ancora suonando. Nemmeno uno spiraglio tra lo stipite e la porta e il trillo cessa. Papà spalanca di scatto ma, sembra incredibile non c’è nessuno. Esce, guarda ovunque, si affaccia dal ballatoio per vedere se qualcuno, pur senza far rumore, stia scendendo le scale, ma non c’è traccia di anima viva. Non c’è una nicchia dove nascondersi: se qualcuno ha davvero suonato si è volatilizzato nel nulla.
L’unica spiegazione possibile è un cortocircuito. Mia madre dice che è il caso di chiamare un elettricista, mio padre le risponde andando a prendere la cassetta degli attrezzi. Se è un filo a fare contatto, può pensarci lui. Sale in mansarda e lo sentiamo rovistare dappertutto. Mia madre alza gli occhi al cielo e attacca con la sua tiritera sul disordine che alberga in quella casa. Io rimango seduta e appoggio il gomito sul tavolo e mi tengo la fronte con la mano in attesa che mio padre pronunci le sue battute imprecando che in quella casa non si trova mai niente e che mia madre gli nasconde le cose con la scusa di riordinare.
Ma ecco che è un trillo a salvarmi, a salvarci, dalle nostre miserie quotidiane. E’ un trillo breve, quasi allegro, vivace. Nuovamente è mia madre che va ad aprire sicurissima, questa volta, che sia mio zio.

No. Non è lui.

E’…è… una person…una cosa…nera. E gigante. Gigante e nera. Io … non ho idea di cosa sia…ha una corazza lucida e scurissima. Le braccia, le gambe…sembrano, sono …zampe.. sei zampe!. Enormi. Nere e coriacee.Vedo mia madre indietreggiare lentamente, di un passo, gli occhi e la bocca spalancati.
Le urlo:"Chiudi!", mentre mi avvicino ma lei è come paralizzata; la vedo indebolirsi, non reagire. Sembrano chilometri i passi che mi separano da lei.
Grido: :"Papà!" e lui si lancia giù, dalle scale di legno, spaventato dall’acuto che emetto. Scende giusto in tempo per vedere sua moglie trafitta dalla zampa superiore sinistra di quella…cosa… all’altezza dello stomaco. E’ orribile.
Sentiamo il rumore che quell’artiglio acuminato fa, trapassandole il corpo. E’ il rumore di qualcosa che sguscia, di qualcosa di viscido che si spappola e sgocciola. E’ l’orrore. La cosa alza la zampa e mia madre si alza con lei. Guardiamo mia madre, la mia mamma, girarsi verso di noi. Sgrana gli occhi e piega la testa a sinistra. Sembra chiederci scusa. Un rivolo di sangue le esce dall’angolo della bocca e le braccia rimangono abbandonate lungo i fianchi. Riesce solo a ruotare il polso destro ed alza debolmente un dito, come ad indicarci, o come a tentare di mantenere un contatto con noi, che stiamo lì impalati e impotenti a guardarla e a sentirla rantolare. Mio padre dice piano :"Anna", ed è la cosa più triste che io abbia mai sentito. Non so se piangere od urlare ma quando la bestia l’avvicina a sé e, con la bocca di cui prima non sospettavo l’esistenza, le strappa una spalla, mi decido per la seconda opzione. Cado in ginocchio e urlo, urlo tutto il mio orrore. Non credevo di avere una voce così potente. Al mio grido si unisce quello grave di mio padre. Il suo è un urlo privo di rabbia, perché lui è già oltre. Il suo è un ululato di sorda disperazione. Mi chiedo se sia possibile che sopravviva senza di lei e mi chiedo come posso tiraci fuori da questo guaio e come potrà mai sopravvivere mia madre con lo stomaco perforato e un braccio, quel braccio che ci aveva indicato, in meno. Ci si aggrappa a qualsiasi speranza pur di non dover affrontare tutto in una volta il dolore. Nemmeno quando inizio a distinguere il rumore della carne di mia madre masticata e ridotta in poltiglia da quelle fauci nere e schifose, riesco a capacitarmi che la sto perdendo.
Mio padre smette di urlare ed afferra una sedia e con quella inizia a sferrare colpi fortissimi all’animale alla porta. La sedia era di ottima qualità, stile Luigi Filippo, in accordo con il resto dell’arredamento, eppure si rompe: ad ogni colpo salta via un pezzo, un frammento, una gamba. La corazza del mostro è più dura dell’acciaio. La bestia non sembra minimamente infastidita dall’assalto quando inizia a masticare la gola e poi la faccia di quel corpo senza vita che era stato di mia madre.
Non c’è più posto per l’illusione, per lo scarto che la speranza mette fra ciò che sembra e ciò che potrebbe essere. Mia madre è morta, divorata da una bestia nera e orripilante che non sono in grado di definire. Qualcosa di terrificante di cui nessuno di noi aveva mai nemmeno osato immaginarne l’esistenza.
Mia madre è morta.
Morta.
Ed io ero lì a guardare mentre succedeva e non ho fatto niente, niente. Sono stata lì ad ascoltare, in ginocchio, il rumore della sua pelle lacerata dalle mandibole di questo scarafaggio abominevole.
Guardo mio padre avvicinarsi alla bestia e lo vedo allungare entrambe le mani cercando di strappare quel che rimane di sua moglie dalla bocca di quel coso che ancora la sta consumando come un pasto. Come un pasto.
E' un gesto istintivo, folle, ormai inutile ma che mi ricorda quello di Jacky Kennedy che d’impulso cerca di raccogliere materia cerebrale di John dalla carrozzeria dell’auto in corsa. E’ l’istinto di chi ama a livello delle cellule, non solo l’intero ma il particolare. Mi rapisce questo gesto e rimango a contemplarlo per una frazione di secondo. Poi, con lancinante angoscia, ritorno in me e mi accorgo del pericolo.
Com’era prevedibile il mostro, ora, attacca mio padre. Io davvero non ho più occhi per vedere (e, infatti, li chiudo), ma non ho nemmeno modo di proteggere me stessa dal sentire il suono secco che fanno in contemporanea le ulne, quando si spezzano.
Il dolore deve essere atroce. Dalla trachea di mio padre fuoriesce un mugghio allucinato che la viscida blatta soffoca con un risucchio nel momento in cui gli ingoia la testa, il cervello, i pensieri.
Io tremo, prego, impreco e spero che tutto finisca presto, che quell’abnorme scarabeo faccia in fretta ad inghiottire tutto il corpo di mio padre, senza scartare nemmeno una frattaglia, che deglutisca tutto, anche le scarpe perché non voglio, ti prego, non voglio veder resti quando aprirò gli occhi, mi avvicinerò alla fiera e le offrirò la mia testa.
Non mi sfiora assolutamente il pensiero di nascondermi, difendermi o scappare.
Io voglio morire. Non voglio esistere nemmeno un secondo di più, dopo che tutto questo è accaduto, dopo che l’Assurdità ha suonato alla mia porta.Andrò in contro a questa bestia perché tutto collassi, perché sia lei stessa a liberarmi dal male che mi ha fatto.Smetto di singhiozzare e mi metto in ascolto. C’è silenzio ora. Forse tutto è finito.
Apro gli occhi:
"Che ci fai lì, in ginocchio?"
Sulla porta non c’è più la blatta: c’è mia sorella che mi guarda e ride. Ha indossato il mio vestito rosso. Le sta davvero bene sembra fatto su misura per lei. Sembra un vestito anni settanta ed invece l’ho comprato settimana scorsa in Corso Buenos Aires.
Fa un passo e dice: "Cos’è ‘sto schifo?". Si toglie la scarpa tacco sette e si ispeziona la suola. Con un'espressione semidisgustata e semidivertita saltella su un piede cercando di non perdere l’equilibrio e dice di aver calpesto un insetto.
Più la guardo più mi convinco che non sia mia sorella, anche se le assomiglia moltissimo. Mi accorgo che anche le scarpe che indossa sono le mie, sono quelle che ho comprato in saldo l’anno scorso. Sono quelle nere con la fibbia. Sono quelle che ho indossato stamattina. Come il vestito.Quella lì che ride e saltella sono io.
Non appena me ne rendo conto mi alzo e furente e dico: "Dove sei stata?!?".
Finalmente lei si accorge che sono sconvolta, getta le scarpe in un angolo e mi abbraccia. I suoi braccialetti tintinnano e se li toglie. Si leva anche il vestito e lo fa cadere a terra.
Inizia, lentamente, a divorarmi dalla testa.


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sabato 6 ottobre 2007

La Caduta di Boonaburra


Si soffre
persino a gettare
free-drinks sul bancone.

Dragàti i tuoi resti
tra morchie di stagni
conservi i residui
in bricolla e risali.

Dal colmo delle forre
il flusso si fa gromma
incastrate
sinapsi elettriche e le azioni.

Se venissi ti direi:
Prego, siediti sul Klippan
soltanto ghiaia
ciò che porti sulle spalle;

ma per il Ponte di Varolio
coi ceppi stretti alle caviglie
dalla gola raggiungi un'altra volta
l'estremità più alta.

Tuo padre china il capo e si fa mugghio.

La Notte delle Locuste


Ecco brava, vai a letto

E concentra il frinire
in un unico punto,
le pietre smussate
dal lago del sonno.

Spalàncati anfratti
devasta le messi
plasmàti a sassate
i deserti che frigni.

Scommetto:
rimuoverai tutto
domani la doccia
sarà musica e festa
esarò io quello matto.

Farcisco meati a furia di Zen

Mi ripeto paziente
sono onda e mare
mare mare
onda e mare
abuso l'immagine
mi inabisso e sollevo
fondo a freddo e domando
se sono io che domando
se il pieno è relleno
se il mo cranio è cancreno.
Tacchino.
Erba è così vicino
ed esonda.
E di sponda
mi rigetto nel mondo
onda e ondo
assorbo
e poi schiumo
poi risacco
mi madido
e sfumo.
Nessuno.

Le pile dei non c'ero


Correva l’anno e correvano
gli astri, Asterione
sarebbe bastato restare
o bastava variare i silenzi.

Non pensavo e ho lasciato
- tu lo chiedevi -
cadere le chiavi
impilare le ore

Tracce d’impatti distinguono
similitudini di corridoi

E’ rimasta soltanto seccata
materia che raschio
pareti insensate

Testa di Smeraldo

No che non lo sono
un’ignobile puttana.

Guarda,
ho ancora i miei piedini
e le unghie di ciliegia.

Non è il caso
che anch’io abbia
testa e croce di smeraldo.
E i miei morbidi capelli
cresceranno.

Per la vita che mi scorre
chiara e forte nelle vene,
tengo stretto il mio segreto
e mi abbraccio le ginocchia.

L’ universo è capovolto:
mento tanto, resto viva
e sono vera.

Mistress Domina

Ave o Maria
ti prego ho paura
fa’ che il tempo non voglia
scolpire i miei polsi
striscio da giorni
ti chiedo perdono.

Ave o Maria
raschio la terra
ho la fronte rappresa
i pensieri in vetrina
lascia che i colpi
siano poco feroci
lascia che il globo
abbia sguardi più vacui

Ave o Maria
ho convessi bemolli
veloci bisogni
poltrone laccate
lascia che i pazzi
non comprino niente
lascia che il vento
sgombri le piazze.

Ave o Maria
estremità nere:
pietà
per chi impasta
compulso la terra
con l’acqua e col sale.

Addosso




Affondo
a piedi nudi
nel tuo sterno,
divarico coi calci
le costole e la carne.

Sullo stomaco
mi appoggio
in pace panica.

Adesso
voglio solo
restare
ad occhi chiusi
ad abbracciarti
ad ascoltare
che respiri.

Mater d' Altro Canto

Sono costretto a subire
il tuo umido dolore
e l’odore di cose
lasciate a marcire.
Non riesco a stare nei contorni
di quest’ora maledetta.
Sono secco
Se mi abbracci
la corteccia
mi si spacca.


Daltrocanto


Resto rauca
e guardo il rosso:
le tue labbra
unite e mute
come cani
dietro ai cancelli
brevi biasimi
evitati