lunedì 8 giugno 2009

DALLO SCRANNO

“Raccontane un'altra, Tent”. Ma per quella sera, avevo finito il parco storielle.
Allungai un'altra volta il bicchiere e Oscar lo riempì fino all'orlo. Nel volo tra il bancone e la mia bocca, tre gocce si depositarono sul legno nero. Cambiavano colore in accordo alle ghirlande di lucine Intermittenti.
Rosso. Giallo. Blu Verde. Buttai giù tutto in un sorso. Rosso. Giallo. Blu. Verde.
Basta poco a volte per far innervosire un uomo.
La musica era bassa e tutti si voltarono sentendo lo stridere del mio sgabello contro al pavimento alla genovese mentre me ne andavo senza salutare. Ed anche senza pagare visto che quel buco, almeno per il momento, era mio.
Gli sguardi e i sorrisi ghignanti alle mie spalle mi solleticavano la nuca. Ero pur sempre un nano che scendeva da uno sgabello.
Per quanto potessi sforzarmi in un passo sicuro o in un'espressione cazzuta, non riuscivo a sdrammatizzare l'aria da fenomeno da circo che mi portavo appresso.
Neppure sbattermi la porta alle spalle sarebbe servito a qualcosa, ma ho sempre amato i gesti gratuiti. Mi aiutano a vivere meglio.
Fuori, ci saranno stati 40 gradi. Le suole delle scarpe si appiccavano all'asfalto. Non avevo idea di dove andare. Volevo solo allontanarmi da quei quattro alcolisti e scioperati che infestavano il mio bar.
Passò l'autobus 77 e lo presi, quasi senza pensare. Viaggiavo senza biglietto. Nel paese da cui provengo è un reato penale. Non riuscii a rilassarmi per tutto il percorso. L'autobus era lento.
Scelsi un posto davanti in modo da poter vedere, oltre i vetri sporchi, le pensiline delle fermate qualche secondo prima di arrivarci. Non vedere un gruppetto di controllori all'orizzonte pronti a braccarmi mi dava qualche istante di sollievo che svaniva immediatamente dopo aver superato la fermata.
I miei coni e i bastoncelli allora si irrigidivano nuovamente nel disperato tentativo di anticipare la mia umiliazione.
Nano, straniero e senza biglietto: una vera leccornia per cani neri in cerca di capri.
L'autobus giallo uscì dalla città e la guida dell'autista si fece più dolce. Campi verdi a destra e a sinistra. Lì, l'estate non era riuscita a cuocere tutto. Mi sentii un po' sollevato lontano dalla polvere e l'odore di catrame.
Il capolinea era un cimitero.
Alzai lo sguardo oltre il muro di cinta che lo circondava.
Era per lei che ero arrivato sin lì: me ne resi conto solo quando la vidi.
Ottagonale, di mattoni d’argilla rossa, la torre dell’abbazia risaltava contro l’azzurro acciaio del cielo. Tre volumi sovrapposti l’uno sull’altro dal più grande al più piccolo come una torta nuziale sudamericana.
Bifore, trifore e colonnine bianche. Un cono, come il copricapo di Mago Merlino, sottolineava il suo aspetto medioevale.
Era per lei che ero arrivato fino a lì e mi aveva deluso.
Oscar me ne aveva parlato molte volte, come si parla di una meraviglia, di qualcosa che non si dimentica più. Non si può morire senza averla vista, diceva. Ed io, idiota, gli avevo creduto. Avevo dato credito al giudizio di uno che aveva, per un verso o per l’altro, passato la sua vita in cattività e che stava finendo i suoi giorni di vecchio, rinchiuso nel buio di quel cesso che era il mio bar.
Era domenica, era agosto e chissà a che ora sarebbe passato un autobus per riportarmi da dove ero venuto. Bestemmiai nella mia lingua natale ed entrai nel cimitero. L’afa è un concetto che ho imparato a Milano. Magari avrei trovato un po’ d’ombra
In fondo al vialone centrale, c’erano due querce. I rami dell’una e dell’altra si incontravano e formavano una breve galleria verde sul fondo del campo santo.
Da uno di quei rami pendeva un uomo. Un cadavere. Un impiccato.
Pensai per un attimo che avesse scelto di mettersi lì appositamente per me.
Io proseguii lungo il viale. Lui aveva le braccia lungo il corpo e i pugni stretti. Mi piaceva l’atmosfera che creavano i canti dei grilli e delle cicale. Un paio di passi e riuscii a vedere che indossava jeans neri e una maglietta da surfista. Il rumore della ghiaia bianca che spostavo camminando con i piedi mi fece venire in mente qualcosa, ma non riuscii ad afferrare il ricordo. Vedevo la suola gialla fosforescente di una scarpa da ginnastica. La stringa slacciata. L’altra scarpa invece era a terra. Doveva essersi sfilata mentre le gambe scalciavano in ribellione alla sua scelta. Il caldo diffondeva l’odore forte dei fiori appassiti. Ora potevo leggere la scritta che aveva sulla schiena: “Charlie don’t surf”. Un angolo della mia bocca si piegò all’insù mio malgrado. And I think be should. Arrivai fin sotto a lui. Un alone scuro di sudore gli appiccicava al dorso la maglietta verdina. Magari è ancora vivo. Gli girai attorno in modo da poterlo guardare in faccia. Il mento appoggiato ad una spalla. Due mosche banchettavano sui condotti lacrimali degli occhi strizzati. No, è stecchito. .La lingua gonfia e viola gli fuoriusciva dalle labbra bianche.
Guardavo dal basso quel corpo appeso. La scarpa e il calzino del ragazzo sfioravano quasi il mio naso. Una goccia di qualcosa cadde dal suo volto al mio. Forse era saliva. Doveva essere morto da poco.
Anche mio padre aveva deciso di farla finita così. Mi dovetti sedere. Proprio lì accanto c’era una panchina di quelle fatte mischiando sassi al cemento, bassa abbastanza da poter toccare il suolo con i piedi, da seduto.
- Pronto… Oscar, la mano con cui tenevo il cellulare mi tremò.
- Stai male? Stai calmo che arrivo, mi rispose subito lui. Era un tipo sveglio, anche se a vederlo non lo avresti mai detto.
- Mhm.
- Dove sei?
- Chiaravalle.Tu.Cimitero, due fitte intercostali mi presero tra una parola e l’altra.
- Arrivo in 10 minuti. Stai lì.
Non feci in tempo a ringraziare Dio di avermi concesso almeno un amico, che dovetti tirare giù un paio di saracche: una donna dondolava appesa anche lei al ramo più alto dell’albero di fronte, dalla parte opposta del vialetto. Le fronde l’avevano tenuta nascosta alla mia vista fino a quel momento.
Adesso potevo vederla di profilo: riccioli rossi, naso da corvo intonato al vestito. Occhi e bocca spalancati in un urlo muto. Polsi legati dietro la schiena.
Dio mi chiuse la bocca con un conato. Il fiotto giallo e acido mi schizzò di rimbalzo le Superga bianche.
Chiusi gli occhi. Ascoltai i muscoli irrigidirsi, mi lasciai cadere e prima di aver toccato il suolo mi dimenticai di me.
Quando ripresi conoscenza avevo un fazzoletto ripiegato tra i denti. Ringraziai mentalmente Oscar: la mia lingua era salva.
Sbattei un paio di volte le palpebre e lui smise di mormorare cipensoiocipensoiocipensoio.
Mi sorrise e mi tolse quella roba intrisa di bava dalla bocca.
- Puttana Eva, disse – non posso lasciarti da solo nemmeno un minuto. Il suo fiato caldo da a alcolista mi fece rinvenire completamente.
Gli indicai il cadavere della donna.
- E’ la becchina, mi disse lui con noncuranza.
- Cosa?
- E’ la becchina. La schiattamorti, la vespillona, la ne-cro-fo-ra!
Quando faceva l’erudito con me lo disprezzavo.
- Ho capito, idiota! Sono romeno, non sono ritardato. Come fai a dirlo?
- Non lo dico lo so. La conoscevo. E’ in questa abbazia che stavo, quando ero monaco.
- Ah, è vero. Fammi alzare, adesso.
- Alzare…, ghignò – non ho imparato a fare i miracoli in seminario.
- Dai aiutami, bastardo.
- In che casino ti sei infilato? , mi chiese quando fui in piedi.
- La tua stramaledetta torre. Quei falliti al bar.
Dopo quegli attacchi per un po’ non riuscivo che ad esprimermi a frammenti.
- Va be’. Cosa facciamo adesso?
- Andiamo a casa, farfugliai aggrappandomi al suo braccio.
- Ma dobbiamo avvertire qualcuno, la polizia…
- Seh, come no. Tu sei matto. Già che ci sei chiama anche quei geni dei Ris di Parma così va a finire che l’omicida sono io. Quelli incasinano sempre tutto.
- Omicida?
Iniziai a stare meglio. Il sole si era abbassato e un po’ di brezza muoveva le foglie. Mi sembrava di riuscire a respirare. Sarei stato una meraviglia lontano da lì.
- Lei ha i polsi legati, non vedi? E’ stata un’esecuzione. Andiamocene via prima che qualcuno ci trovi qui.
- Ma chi avrebbe voluto fare del male a questi due? Erano una coppia tranquilla.
- Oh, sì, tranquillissima. Queste cose succedono nelle migliori famiglie. Quindi conoscevi anche lui?
- Un bravo ragazzo…, mi disse. Le sue spalle si fecero ancora più spioventi del solito.
- Certo, certo. Bravissimo, gli risposi sempre più seccato - così tanto che ha pensato bene di appendere per il collo la sua baldracca a un albero. Bravo, davvero bravo.
- Era sua moglie.
- Tanto peggio, dai muoviti! Andiamo!
Lo tiravo per il braccio ma lui rimaneva impalato come un dolmen.
- Carla chiuse con me per sposare lui.
Alzai lo sguardo per guardare se stava scherzando. Dal punto in cui ero vedevo svettare sia lui che la torre dell’abbazia. Non scherza, porcamignotta, non scherza. La becchina era stata una sua ex. I due cadaveri dondolavano neri, in controluce.
- Andiamo, ti ho detto! Andiamo,
Quando fummo in macchina lui non parlò per un bel pezzo. Io guardavo la strada srotolarsi a ritroso rispetto al percorso che avevo fatto venendo. I finestrini della sua auto erano maniacalmente detersi. Sapevo che metteva Lisoform nel serbatoio dell’acqua dei tergicristalli. Da quando lo avevo assunto, per gestire il mio bar, quella bettola profumava di pulito ed io avevo imparato a coniugare il verbo detergere.
- Devo passare a prendere Tina, disse ad un certo punto dopo aver gettato un’occhiata all’orologio e stringendo più forte il volante.
- Lo sai che non mi piace, il tono della voce mi uscii un po’ piagnucolante e mi pentii di aver aperto bocca.
- Non deve di certo piacere a te.
Tina ci stava aspettando davanti al portone di casa sua, in Via Ripamonti.
Appena ci vide incrociò braccia e sopracciglia e si mise a masticare la gomma ancora più sguaiatamente del solito. Salì in macchina sbattendo la portiera posteriore più forte del necessario. Sapeva tre parole d’italiano ma era bravissima a far cogliere a tutti il suo disappunto.
- Solo dieci minuti di ritardo, non è il caso di essere arrabbiata, le disse Oscar voltandosi e infilando la faccia fra i due sedili anteriori per darle un bacio sulla bocca color prugna - non devi timbrare il cartellino.
- Nano!, disse lei ed io dovetti frenare l’impulso di saltare sul sedile posteriore, sfilarle una scarpa di vernice rossa e colpirla ripetutamente sul muso con quel tacco dodici fino a cavarle gli occhi porcini.
Alzai invece il volume della radio e incrociai le braccia. Poteva impastarsi di trucco quanto voleva ma non sarebbe mai riuscita a cancellarsi quell’espressione da contadina russa dal volto.
Grazie al Dio di Oscar il tragitto fu breve. Poco traffico all’ora di cena in città, ad agosto.
La scaricammo sulla circonvallazione, all’altezza della Centrale del Latte tra una nigeriana troppo magra e una messa bene, ma con la faccia da zingara.
Al primo semaforo che incontrammo azzardai: - Certo che la tua collezione di donne è davvero patetica: becchine, mezze matte… Ed ora una zoccola.
Ridevo, ma lui non trovò la mia uscita divertente e me lo disse. Poco dopo mi lasciò davanti a bar e sgommò verso casa sua.
Rimasi solo ed entrai nel retro. Là avevo sistemato un letto singolo, un armadietto e appeso alla parete qualche poster. Era la mia stanza, la mia casa.
Cominciai a prendere a calci il letto, con violenza, più forte che potevo fino a quando non fui così esausto da gettarmi così com’ero tra le lenzuola grigie.

Presi subito sonno dimenticandomi di inventare storielle per il giorno dopo.

sabato 18 ottobre 2008

O-scena Teodicea




Se mollo la presa la preda
si divincola e muore.

Interno, notte: una ragazza
pancia bianca di balena
lenzuola blu-cina
squarciata.

Lo scalpo appeso alla testiera.

(Di giorno) un coroner disfatto
ricostruisce -attento- lo spettacolo-delitto;
“Dio non è un luckenbusser”,
tra di sè
e sè
pensava:
“eppure pare a volte amalgamare
corone cremagliere”.

(e nei cunicoli la polpa scovola)

Dietro a tende sangue, l'osservavo;
sgocciolava la mia scure e gli scuri
battevano colpi a discolpa delle attese.

La colpa implica legami.

venerdì 13 giugno 2008

L'ultima cena

Non è difficile immaginare un salone barocco, decorato con stucchi dorati e un affresco ovoidale nel centro del soffitto: appese alle grandi finestre tendaggi pesanti e cremisi e un enorme lampadario di cristallo a dominare la scena.
Guardo la punta delle mie scarpette color conchiglia calpestare il parquet lucido e ascolto il tichettìo che faccio per attraversare a passi brevi e veloci la sala e raggiungere l'unico posto libero rimasto. Tutti gli altri invitati sono già seduti e il silenzio imbarazzato sembra non esserci mai stato quando sorrido e prendo posto unendomi agli altri undici commensali che mi investono con il loro cicaleccio.
Mi guardo attorno: ci sono altri sei o sette tavoli rotondi identici al mio, per dimensioni e accuratezza con cui sono apparecchiati: tovaglia candida di broccato, sottopiatti d'argento finemente cesellati, bicchieri sottilissimi e quasi invisibili.
A dir la verità non lo so se la tovaglia sia davvero o no di broccato ma quando noto gli scontri tra le brocche in porcellana e tutto il resto del brocantage e quando alzo lo sguardo ad osservare l'affresco e mi accorgo che ritrae cavalli (brocchi?) spronati (broccati?) da un cocchiere in livrea mi dico che tutti gli indizi portano ad un'unica via: quella del damasco.
La smetto di giocar con le parole e provo a concentrarmi sulle persone che ho attorno e apparecchio la mia espressione perché non stoni con le ricercate vettovaglie e gli antipasti, i tovaglioli e la situazione.
Seduto alla mia sinistra c'è un vecchio vestito di tutto punto contraddistinto da un paio di baffi imperiali e imperlati da qualche goccia di Bordeaux che intravedo in controluce.
Accanto a lui è seduta una donna minuta, sulla trentina, capelli a caschetto anni '20 e sguardo penetrante e senza vergogna, vestita in vigogna; ha un piccolo neo disegnato a matita sul mento e gioca distratta con una ciocca. Proseguendo in senso orario incontro lo sguardo di un anonimo ragazzo incravattato ‘Marinella’, abbronzatura artificiale e brillantina accanto al quale siede rigidamente una ragazza con i polsi sul tavolo, pallida e con i capelli biondi raccolti in un sofisticatissimo chignon. Due bacchette giapponesi intagliate e lucidissime sono infilate nella crocchia come a formare una croce. Agganciate alle estremità dei campanellini tintinnano ad ogni movimento del capo.
In contrasto a questa coppia, due signori sulla cinquantina entrambi un po' sovrappeso visibilmente annoiati: lui appoggiato allo schienale e un po' sudaticcio (riesco a scorgere il riflesso del lampadario sulla sua calotta cranica), lei con un vestito a fiori rossi e viola, boccoli ramati ottenuti con l'arricciacapelli e spuma l'Oreal; il gomito puntato accanto al piatto per sostenerle il braccio che le sostiene il polso che le sostiene la mano sulla quale è abbandonato il volto dal trucco pesante ormai un po' colato. Grumi di mascara le incrostano gli angoli degli occhi.
Li separa da un trio piuttosto singolare un adolescente albino che fa palline con la mollica del pane: gli angoli della bocca piegati sembrano indicare un'infanzia trascorsa nel pianto.
Il trio, affiatatissimo, tanto che sembrano non rendersi conto degli altri presenti, è composto da una donna, al centro (maglione a coste grigio e sformato, con le maniche a coprirle le nocche, pantaloni larghi, scarpe da uomo e cappello da monello) e due uomini, ai suoi lati. Lei è come un punto di fuga per loro, un centro che calamita le attenzioni e gli sguardi di entrambi. Mi sembra di cogliere un frammento di una frase che l'uomo in gessato dice a quello con i baffi e senza cravatta: "…si consuma e nessuno se ne accorge", ma forse ho sentito male. Il primo tiene in mano il coltello, il secondo tormenta, mentre sorride, la falda del cappello in peltro che ha evidentemente deciso di non togliersi per tutta la durata della cena.
Alla mia destra siede una transgender: è spettacolare. Sento un brivido ogni volta che per caso si sfiorano le nostre braccia nude. Occhi obliqui e riccioli neri: uno schianto. Mi ipnotizza la sua pelle levigata e ammiro lo smalto color bronzo delle unghie delle mani e dei piedi, leggermenti troppo grandi rispetto al resto del suo corpo. Avvolta in un vestito in lamè mi versa il vino socchiudendo un po’ le palpebre quando il mio bicchiere si svuota.
Terminati gli antipasti, entra uno stuolo di lacchè supercoordinati e impomatati. Rapidamente sgombrano i tavoli e con grande pompa servono un piatto di portata enorme che sistemano al posto del centrotavola.
La scena si fa silenziosa. Le luci si abbassano di qualche decina di watt.
Tutti guardano il coperchio di metallo sistemato sul vassoio in attesa che sia scoperchiato.
Io gioco con il mio riflesso che, sulla superficie curva del coperchio, è deformato. La mia fronte sembra occupare la maggior parte del mio volto, il naso è scomparso e la mia bocca è simile a quella di un clown.
Sorrido e i miei denti sono quelli di una caricatura.
Mi sposto e mi trasformo in un Modigliani: il collo si allunga e la mia testa scivola oltre la curva della cupola argentata (o è silver–plate?).
Un rullo di tamburi arriva da chissà dove.
- Et voilà!, dicono all’unisono i lacchè che avevano la mano sul pomello del coperchio e con un gesto deciso mostrano a tutti noi il piatto forte della serata.
- Oh-ohhhh, faccio io, unendomi al coro con tutti gli altri.
- Kaì-kaì, fa il pincher nano che si svela ritto e vigile sopra al letto di insalata e pomodorini.

La prima a farsi sotto è la biondina dall’acconciatura nipponica. Si alza in piedi e fulminea impugna una forchetta e la pianta in una natica del cagnolino. Il grassone che le è seduto a fianco, sì è come rianimato e si adopera per aiutarla: con una mano tiene il cagnetto per la gola, con l’altra munita di coltello aiuta la ragazza a servirsi. La moglie si è tolta la mano dalla guancia, dove è rimasto un vistoso segno bianco, e attende che il marito aiuti anche lei. Il cagnolino guaisce e, per sbaglio, l’omone sudaticcio libera la presa e la preda si divincola e muove qualche passo sulla tovaglia immacolata lasciando impronte rossicce di salsa in corrispondenza dei cuscinetti delle sue zampine.
E’ il ragazzo albino, con braccia inaspettatamente lunghe, a sporgersi nel centro del tavolo, ad acchiappare il piccolo pincher e a riposizionarlo sul piatto. Adesso le sue zampe tremano e il guaito si fa più disperato: riesco a sentirlo malgrado il tifo da caccia alla volpe che si è creato nella sala.
Io sono inebetita. Non me lo aspettavo di certo questo risvolto venatorio. Cerco nel mio vecchio vicino che ho sulla destra uno sguardo di rivolta. Mi alzo in piedi.
Il vecchio mi invita a risedermi e si mostra comprensivo:
- Fa sempre un certo effetto la prima volta - mi urla nell’orecchio per sovrastare le voci dei commensali - Ma non si distragga, stia attenta. Ci siamo quasi.
- Non capisco cosa… , provo a dire ma il rumore è talmente alto che non riesco a sentire la mia voce.
Intanto i camerieri passano portando piattini colmi di patate e broccoli di contorno.
Osservo, con orrore, tutte quelle persone nutrirsi di cane.
Vivo.
Un rivolo si sangue ha cancellato il neo finto sul mento della flapper che si agita cercando di infilare la forchetta fra le costole del cane. Il ragazzo abbronzato mastica senza ritegno a bocca aperta ed anche il terzetto fa la propria parte anche se con un po’ più di calma e discrezione.
L’adolescente, come chiuso in una bolla di indifferenza, con le sottili dita diafane porta alla bocca alternativamente un pezzettino di carne (che la moglie del grassone gli ha messo maternamente nel piatto) e una pallina di pane e guarda di sottecchi la transgender che è rimasta, almeno per il momento, ancora a bocca asciutta.
Cerco di parlarle ma, quando vedo che anche lei allunga davanti a sé forchetta e coltello e nel momento in cui mi rendo conto di quanto siano aguzzi i suoi canini, rinuncio.
Mi alzo ancora in piedi ma il vecchio mi trattiene per il braccio:
- Ecco, ecco! Stia a guardare! E’ questo il momento esatto in cui si spegne!
Il piccolo pincher barcolla, gli occhietti gli si fanno di vetro e si accascia. Il musetto va a finire a scomporre il piattino di patate dell’uomo col cappello.
E allora io mi volto e a rotta di collo mi precipito verso l’uscita e discendo la scalinata d’onore così velocemente da accorgermi soltanto in fondo di aver perso una scarpetta-conchiglia.
Mi giro solo un secondo, giusto il tempo di cogliere una sagoma in lamè, china su un gradino, nell’atto di raccogliere la mia scarpina.
Me la lascio alle spalle e scapicollo verso il parcheggio, alla ricerca della mia zucca.

venerdì 14 dicembre 2007

giovedì 8 novembre 2007

Analisi

(ovvero: che il rompetelerighe dia fiato al fetale)


Allogeni impulsi
dilaniano – opposti - il corpo
d’armata.

L’acefala mostra
allo Specchio il conflitto:
battaglioni-abbattuti-da-fuoco-fratello
cortina di ferro
battuto.

Tremilaseicentoeurolanno.

In questa stretta città di pollo
servito con glam, in bicchiere e cristallo
in verde velluto
di culla
ripiego.

giovedì 11 ottobre 2007

La Figlia dell'Echidna


Qualcosa si è inceppato nel meccanismo.
Mi sveglio con questa sensazione un paio di minuti prima che la sveglia suoni; fuori è ancora buio. Vorrei potermi rigirare nel letto ma sono alla fine dell’ottavo mese. Emetto un sospiro e rimango a pancia all’aria: una tartaruga rovesciata alla ricerca di un riassetto.
Nessuno verrà in mio aiuto.
Chiudo gli occhi per vedere se il denso del sonno dal quale sono stata espulsa sia in grado di riassorbirmi e, per un attimo, mi illudo. Poi, però, il latrato della sveglia mi ricorda che il mondo esiste, e non solo: si aspetta anche che io contribuisca a portarlo a compimento.
A piedi nudi, io e la mia creatura, ci trasciniamo lentamente verso il bagno, senza il coraggio di guardarci nello specchio.
Qualcosa non funziona: gli orologi di Leibniz non sono sincronizzati. Dico alla gamba fai un passo e lei esegue solo dopo qualche secondo. Ho la pelle d’oca, ma non sono brividi: è paura.
Con una mano mi appoggio alle piastrelle. Un’ epiglottide di buio mi risucchia in un non-luogo, senza sopra e senza sotto, senza tempo e senza spazio, fino a quando sento chiaramente la mia fronte battere sul bordo del lavello. Il pavimento è sudicio e freddo.
Nessuno verrà in mio aiuto.
Devono essere passate ore perché, dal punto in cui sono, con la testa incastrata tra la vasca da bagno e il cesto della biancheria sporca, l’angolo di cielo che riesco a vedere, oltre il vetro impolverato della finestra, ha il colore del mezzogiorno.
Faccio leva con una mano sul bordo della vasca per alzarmi mentre con l’altra mi tocco la fronte in cerca di una ferita che non trovo. E’ solo una botta, niente di grave. Mi rialzo piano piano.
Mi accorgo che un liquido trasparente e rosato mi appiccica la camicia da notte alle cosce e alla pancia. Mio dio, non può essere niente di troppo grave se sono qui in piedi e non sento dolore. Bisogna comunque che io chiami qualcuno. Ospedale. La prego. Dottore. Mi aiuti. Si saranno rotte le acque, sarà solo arrivato il momento. Non è niente, non è niente questo umore che mi cola tra le gambe, Non guardare, non guardare. Guarda.
Le mani tremano quando alzo la camicia e mentre sento di sentirmi un po’ più vuota. Qualcosa è fuoriuscito da me, dal mio corpo: è il cordone ombelicale gelatinoso e opalescente alla cui estremità è appesa una piccola sacca fatta della stessa materia vischiosa. E’ troppo piccolo per poter essere mio figlio. La prendo in mano e cerco di individuare nel liquido lattiginoso un cuoricino che batte.
Lo vedo. E’ troppo piccolo per poter essere mio figlio. Tre o quattro centimetri al massimo. Rosa e rosso. Ripiegato su sé stesso. Riesco a distinguere la testa. Gli occhietti. Il becco.
“Pronto intervento, mi dica”.
“Ho partorito. Qualcuno mi aiuti; è troppo piccolo per poter essere mio figlio!”

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La voce acuta di Zeta rovina nel silenzio come una slavina: “L’ennesimo esempio di informazione fasulla e deformante!”, urla lanciando il giornale contro il muro della stanza d’ospedale in cui sto da quasi due settimane. Il letto accanto al mio è vuoto. Devono aver pensato che avrei apprezzato l’assenza di una compagna di stanza al settimo cielo per la sua buona e personale novella o, più probabilmente, devono aver pensato che la mia presenza sarebbe stata motivo di incubi deleteri per una neomamma in giubilo.
“Lascia perdere, non mi interessa”, le rispondo con stanchezza, voltandomi verso il muro malimbiancato.
“Non ti interessa? Non ti interessa?!”, fuori di sé, Zeta recupera dal pavimento il quotidiano: ”Parlano di te, qui, in prima pagina!”. Colpisce quattro volte con il dorso della mano il giornale e poi lo fa cadere di nuovo a terra. ”Ti chiamano Echidna…sai chi era Echidna?”. Lo dice di gola, esasperata.
“Non mi interessa, ti ho detto”. Smetto di fissare il muro e mi volto nella sua direzione: è paonazza. Non si è messa l’ombretto e i suoi capelli sono in disordine. La conosco da anni ma in questo stato non l’ho mai vista.
“Associano quello...che…ti è successo, agli embrioni chimera, alla fecondazione assistita, alle clonazioni! Hanno fatto di te un pretesto per diffondere pregiudizi ignoranti sulla ricerca scientifica e sull’etica. Ti stanno usando e a te non interessa!”.
“Non sono mai stata brava a pensare al mondo prima che a me stessa, lo sai“. Lo dico a voce bassa ma con rabbia; me ne pento subito, si vede che ci è rimasta male: “ Tu… io… è che non so che cosa fare”, esita e si appoggia al comodino in truciolato, laccato di azzurro.
“Piangi per me, per favore. Io non ne sono capace. Ecco quello che devi fare”, le dico. Ogni mia parola è un fruscio.
Si siede sul letto e mi prende la mano. Osservo le sue rughe nuove e i vestiti vecchi. Non riesce nemmeno a guardarmi negli occhi.
“Vai via, non mi servi”.
Si alza e scompare.

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Quel che mi serve adesso è un filone di pane. Mi servono anche un paio di pomodori, mais, olive e qualcos’altro, da mettere nell’insalata. Il supermercato è affollato. Mi sembra strano trovarmi in mezzo a tanta gente; da più di un mese non uscivo di casa.
Spingo il carrello fra le corsie e mi fermo ad ogni etichetta ‘Offerta Speciale’. Mi suona così strana questa dicitura. ‘Offerta Speciale, Offerta Speciale. Offerta Speciale. Rimango appesa ad un pensiero: qualcuno deve pur aver inventato questo modo di dire. Speciale. Dicitura. Ogni parola che penso mi suona come straniera.
Ho bisogno di tutto perché ho il frigo vuoto da giorni. Mia madre non sta bene e non è passata questa settimana coi viveri e i buoni consigli. L’ultima volta ha lasciato un breviario e lasagne nel forno.
Mi blocco davanti al banco del pesce. Una sogliola ai ferri, magari. Prendo il numerino e mi guardo attorno. Paziente, mi metto in fila ed aspetto pensando ad un buon vino da abbinare.
Qualcuno mi tocca la spalla. Mi giro di tre quarti sperando in un errore: “Buongiorno, è da un po’ che non la vedo”. Chi mi parla è una donnina sorridente. E’ la proprietaria dell’edicola del mio quartiere, una cinquantenne un po’ stempiata, sempre gentile e bendisposta a chiacchierare con chiunque le capiti di incontrare.
“Buongiorno”, rispondo senza tono e guardo il contenuto del mio carrello in cerca di un convenevole qualunque.
“Ha visto quanta gente?”, mi risponde senza accorgersi del fastidio che non mi curo di occultare e continua: “E’ che domani è festa e sarà chiuso. Io torno adesso dal mare e ho tutto da comprare. Mai che mio marito mi dia una mano in casa! Penso sempre a tutto io. D’altra parte questi uomini…”. Prende fiato e ignorando il mio silenzio insiste: “E lei? Come va?”. Proprio non ce la fa a non posare lo sguardo sul mio addome, ma apprezzo il tentativo.
“Benissimo, grazie“. Mi sforzo appena in un sorriso, mi tolgo dalla fila, afferro da uno scaffale due buste di salmone affumicato e, piegando il capo come ad abbozzare un saluto, passo oltre.
Svolto nella prima corsia a sinistra e aggiungo al carrello due vasetti di yogurt alla frutta, una scatola di cereali, poi giro a destra, afferro due birre e, infine, una scatola di Tampax.
Non guardo in faccia la ragazza alla cassa mentre pago e faccio finta di aver fretta.
La borsa della spesa non è troppo pesante. Mentre cammino verso casa riesco a fumarmi una sigaretta. Il sole è tiepido ed ho voglia di sentirmelo in faccia. Taglio per il parco e mi siedo, a finir di fumare, su una panchina.
Un uomo è fermo davanti al prato con un guinzaglio in mano. Sembra fissarmi. Mi scappa dalla bocca: “E’ troppo piccolo per poter essere mio figlio”. Non sono sicura di aver parlato. Forse non ha sentito. Io ogni caso prendo la spesa e, di corsa, me ne vado.
Ancora pochi metri e sono a casa.
Li ho visti già dal fondo della strada. Metto gli occhiali scuri e mi faccio largo tra i giornalisti che mi chiedono che cosa provo. Non sono domande da fare. Lasciatemi in pace. Perfavore.
Chiudo il cancello ed entro in casa.
Apro il frigo per sistemare la birra. Non ti ho nemmeno dato un nome. Lascio aperto lo sportello, prendo il cellulare e chiamo l’ospedale: “Vengo a prenderlo domani”.
“Nessuno le ha ancora detto che è una… femminuccia?”

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“Lo so che hai paura, bambolina”. Le passo la mano tra i capelli e cerco di rassicurarla con un sorriso.
“E allora se lo sai, perché ci devo andare? Sappiamo cosa succederà”, mi rimprovera, seria, la sua vocina.
“Non possiamo saperlo, per questo devi entrare. Non sarà così terribile”. Mi accorgo che sta tremando e non sono più sicura di ciò che sto facendo. Forse dovrei mettere in moto la macchina e riportarla a casa, al sicuro; e invece le dico: “Devi abituarti a loro. Non puoi startene sempre per conto tuo”. La accarezzo di nuovo e proseguo, come se fosse la cosa più normale del mondo: ”E loro devono abituarsi a te”.
Le trema la voce e stringe forte i pugni quando mi chiede: “Perché?” e i suoi: “Non voglio, non voglio!” sono una supplica che mi stringe il cuore
“Piccolina, devi andare. E’ giusto così. Fidati di me. Ti farai tanti amici e imparerai milioni di cose nuove”.
“Tu sei mia amica e potresti insegnarmi tutto tu…”.
“Vengo a prenderti alle 12.30. Sarò qui che ti aspetto. Avanti, andiamo, ti accompagno. E’ tardi”. Scendiamo dalla macchina e le prendo la mano. Sento le piume morbide che ha sulle nocche arruffarsi: è segno che è arrabbiata con me. Non parliamo più mentre attraversiamo il parcheggio davanti alla scuola. Non vorrei farti soffrirei, colombella, ma cos’altro posso fare? Ci avviciniamo alla piccola folla di mamme e bambini in grembiulino che al nostro passaggio si zittiscono. Due o tre bambini ci indicano. Siamo abituate a questo, possiamo farcela, non è così terribile. Saliamo le scale. Sono quindici interminabili gradini in cima ai quali c’è l’ingresso della scuola. Una maestra ci sorride e, stoica, maschera la sorpresa con sforzi sovrumani. Eppure dovrebbero averla avvertita. “Eccoci”, le dico. “Prima B, da questa parte”, trilla stucchevole senza bisogno di consultare la lista, indicandoci una fila di bambini ammutoliti. Mi chino verso la mia bolina de nata e le sussurro ancora: “Non sarà così terribile. Vai”. Lei mi pianta gli occhi negli occhi come fa sempre, quando mento.
Si volta e mi punisce col silenzio.
Decido di trascorrere le quattro ore che mi separano da lei con le mani appoggiate sul volante mentre la penso intensamente. Mi illudo così di sostenerla e di farla sentire, in qualche modo, meno sola.
Sono le 12 e trentun minuti quando la vedo sbucare dal cancello e correre più forte che può verso l’auto. Lo zainetto rosa che ha in spalla le impedisce i movimenti. Lo abbiamo comprato appena tornate dal Portogallo, nello Store delle Winx che hanno aperto da poco, in centro. Penso a quando ridevamo come matte, una volta uscite dal negozio, imitando l’espressione che aveva la commessa: ci fissava allucinata come fossimo ectoplasmi. Non ci interessavano i pensieri che la gente faceva su di noi. Eravamo insieme ed eravamo forti. Eravamo felici. La scuola era soltanto nebbia all’orizzonte ; forse, avvicinandosi, si sarebbe dissipata.
E invece il momento era arrivato, solido come cemento. Seduta sul sedile a braccia serrate tenta di trattenere i singhiozzi.
“Perché mi hai messo al mondo, mamma?”, bisbiglia, “Eh mamma, perché?”

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Mi sveglia il jingle dell’edizione straordinaria del telegiornale. Ormai è un’abitudine addormentarmi davanti al televisore acceso. Cerco sul tavolino la tazza del the, tra la lampada e il giornale, ma sento che ormai si è raffreddato.
Batto le mani ed accendo le luci di questa nuova Domotica, questa casa automatizzata, che mi ha regalato mia figlia. Voglio alzarmi e prepararmi qualcos’altro di caldo. In questo bunker tecnologico e protettivo sarebbe sufficiente parlare ad alta voce e l’acqua si metterebbe a bollire, ma io conservo i miei riti e l’idea di parlare con una casa prosegue, benché io ci abiti già da un anno, ad apparirmi ridicola.
Attira la mia attenzione il volto dello speaker che appare sul monitor: è teso e la sua voce è allarmata. Mio dio, cos’altro è successo stanotte? Mi blocco in mezzo alla stanza con il mug gelido in mano. Il paese è dilaniato da una vergognosa guerra civile e la strategia del terrore e tornata, ancora una volta, di moda. C’è chi si difende accumulando denaro soddisfacendo la richiesta di raffinatissime magliette, veicoli di slogan luccicanti. La gente urla nelle piazze: “Habere non haberi”, ma anche: “Tiocfaidh àr là” e non sa, davvero non sa, quel che dice. Due settimane fa, quindici persone sono state calpestate dalla folla, troppo intenta a scandire “I have a dream” per prestare attenzione ai gemiti dei corpi sui quali marciavano a tempo dei tamburi battuti da chi faceva da controcanto sillabando: “Mai mulà, Tegn dur”. La vita è triste e incomprensibile, di questi tempi, e non solo. Ma questa non è una notizia da edizione straordinaria. Abbiamo smesso da tempo, noi telespettatori, di allarmarci di questo stato di allarme costante. Infatti lo speaker farfuglia sconvolto di qualcosa di diverso, di qualcosa che riuscirà a far gemere di orrore noi cittadini abituati ormai a tutto, di un omicidio abominevole ed efferato, così ingiusto da spalancare all’unisono gli occhi e le bocche di noi, amiche e amici da casa. Deve essere stato assassinato qualcuno di importante perché, di omicidi qualunque, i media hanno smesso di parlarne da anni.
Mi riaccomodo sulla poltrona in attesa di sentire il nome della vittima illustre. Mi preparo: sarà un duro colpo.
Non riesco a seguire il preambolo del giornalista: forse è la tensione o forse sono le bio-onde emesse dalla mia casa intelligente a interferire con il mio apparecchio acustico che emette un crepitio intollerabile. Lo spengo ed attendo che le immagini sostituiscano il silenzio.
Appaiono sequenze di repertorio, che ritraggono Eva, mia figlia, su fondali di cui già sono al corrente: ospedali, scuole, campi di nomadi o profughi e su un palco acclamata dalla folla, l'8 dicembre appena trascorso. Mio dio, cos’altro è successo stanotte?
Sullo schermo compare il titolo del servizio: “Assassinata il candidato alla presidenza della Società delle Nazioni”.
La tazza mi sfugge di mano. Cade sul pavimento e si rompe a metà lasciando il poco the rimasto libero di infilarsi tra gli interstizi ecologici delle piastrelle in carbonato di calcio.
Provo a seguire il movimento delle labbra cocciniglie dell’ inviata Speciale, appostata all’ingresso della casa di Eva, per carpire qualche parola di smentita.
Il filo della mia speranza cede, quando la telecamera zooma impietosa sulla lettiga che fa capolino dalla porta di casa che si apre, curiosamente, verso l’esterno.
Vedo i boccoli biondi di Eva ciondolare dalla barella spinta verso il cortile da due uomini in camice bianco. Non vedo nient’altro di lei perché è stata con cura coperta da un compassionevole lenzuolo.
Per qualche secondo i miei pensieri rimangono inceppati in quei cardini innaturali, montati al contrario, come si monta, a favor di pubblico, un set teatrale.
La macchina da presa indugia sul braccio scivolato da sotto il lenzuolo a causa dei movimenti sussultori che, la lettiga e il corpo, subiscono nello scendere dai quindici scalini dell’ingresso della casa di Eva.
E’ il primo piano su una nocca piumata a far sgorgare, dopo 35 anni, il mio pianto.