giovedì 11 ottobre 2007

La Figlia dell'Echidna


Qualcosa si è inceppato nel meccanismo.
Mi sveglio con questa sensazione un paio di minuti prima che la sveglia suoni; fuori è ancora buio. Vorrei potermi rigirare nel letto ma sono alla fine dell’ottavo mese. Emetto un sospiro e rimango a pancia all’aria: una tartaruga rovesciata alla ricerca di un riassetto.
Nessuno verrà in mio aiuto.
Chiudo gli occhi per vedere se il denso del sonno dal quale sono stata espulsa sia in grado di riassorbirmi e, per un attimo, mi illudo. Poi, però, il latrato della sveglia mi ricorda che il mondo esiste, e non solo: si aspetta anche che io contribuisca a portarlo a compimento.
A piedi nudi, io e la mia creatura, ci trasciniamo lentamente verso il bagno, senza il coraggio di guardarci nello specchio.
Qualcosa non funziona: gli orologi di Leibniz non sono sincronizzati. Dico alla gamba fai un passo e lei esegue solo dopo qualche secondo. Ho la pelle d’oca, ma non sono brividi: è paura.
Con una mano mi appoggio alle piastrelle. Un’ epiglottide di buio mi risucchia in un non-luogo, senza sopra e senza sotto, senza tempo e senza spazio, fino a quando sento chiaramente la mia fronte battere sul bordo del lavello. Il pavimento è sudicio e freddo.
Nessuno verrà in mio aiuto.
Devono essere passate ore perché, dal punto in cui sono, con la testa incastrata tra la vasca da bagno e il cesto della biancheria sporca, l’angolo di cielo che riesco a vedere, oltre il vetro impolverato della finestra, ha il colore del mezzogiorno.
Faccio leva con una mano sul bordo della vasca per alzarmi mentre con l’altra mi tocco la fronte in cerca di una ferita che non trovo. E’ solo una botta, niente di grave. Mi rialzo piano piano.
Mi accorgo che un liquido trasparente e rosato mi appiccica la camicia da notte alle cosce e alla pancia. Mio dio, non può essere niente di troppo grave se sono qui in piedi e non sento dolore. Bisogna comunque che io chiami qualcuno. Ospedale. La prego. Dottore. Mi aiuti. Si saranno rotte le acque, sarà solo arrivato il momento. Non è niente, non è niente questo umore che mi cola tra le gambe, Non guardare, non guardare. Guarda.
Le mani tremano quando alzo la camicia e mentre sento di sentirmi un po’ più vuota. Qualcosa è fuoriuscito da me, dal mio corpo: è il cordone ombelicale gelatinoso e opalescente alla cui estremità è appesa una piccola sacca fatta della stessa materia vischiosa. E’ troppo piccolo per poter essere mio figlio. La prendo in mano e cerco di individuare nel liquido lattiginoso un cuoricino che batte.
Lo vedo. E’ troppo piccolo per poter essere mio figlio. Tre o quattro centimetri al massimo. Rosa e rosso. Ripiegato su sé stesso. Riesco a distinguere la testa. Gli occhietti. Il becco.
“Pronto intervento, mi dica”.
“Ho partorito. Qualcuno mi aiuti; è troppo piccolo per poter essere mio figlio!”

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La voce acuta di Zeta rovina nel silenzio come una slavina: “L’ennesimo esempio di informazione fasulla e deformante!”, urla lanciando il giornale contro il muro della stanza d’ospedale in cui sto da quasi due settimane. Il letto accanto al mio è vuoto. Devono aver pensato che avrei apprezzato l’assenza di una compagna di stanza al settimo cielo per la sua buona e personale novella o, più probabilmente, devono aver pensato che la mia presenza sarebbe stata motivo di incubi deleteri per una neomamma in giubilo.
“Lascia perdere, non mi interessa”, le rispondo con stanchezza, voltandomi verso il muro malimbiancato.
“Non ti interessa? Non ti interessa?!”, fuori di sé, Zeta recupera dal pavimento il quotidiano: ”Parlano di te, qui, in prima pagina!”. Colpisce quattro volte con il dorso della mano il giornale e poi lo fa cadere di nuovo a terra. ”Ti chiamano Echidna…sai chi era Echidna?”. Lo dice di gola, esasperata.
“Non mi interessa, ti ho detto”. Smetto di fissare il muro e mi volto nella sua direzione: è paonazza. Non si è messa l’ombretto e i suoi capelli sono in disordine. La conosco da anni ma in questo stato non l’ho mai vista.
“Associano quello...che…ti è successo, agli embrioni chimera, alla fecondazione assistita, alle clonazioni! Hanno fatto di te un pretesto per diffondere pregiudizi ignoranti sulla ricerca scientifica e sull’etica. Ti stanno usando e a te non interessa!”.
“Non sono mai stata brava a pensare al mondo prima che a me stessa, lo sai“. Lo dico a voce bassa ma con rabbia; me ne pento subito, si vede che ci è rimasta male: “ Tu… io… è che non so che cosa fare”, esita e si appoggia al comodino in truciolato, laccato di azzurro.
“Piangi per me, per favore. Io non ne sono capace. Ecco quello che devi fare”, le dico. Ogni mia parola è un fruscio.
Si siede sul letto e mi prende la mano. Osservo le sue rughe nuove e i vestiti vecchi. Non riesce nemmeno a guardarmi negli occhi.
“Vai via, non mi servi”.
Si alza e scompare.

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Quel che mi serve adesso è un filone di pane. Mi servono anche un paio di pomodori, mais, olive e qualcos’altro, da mettere nell’insalata. Il supermercato è affollato. Mi sembra strano trovarmi in mezzo a tanta gente; da più di un mese non uscivo di casa.
Spingo il carrello fra le corsie e mi fermo ad ogni etichetta ‘Offerta Speciale’. Mi suona così strana questa dicitura. ‘Offerta Speciale, Offerta Speciale. Offerta Speciale. Rimango appesa ad un pensiero: qualcuno deve pur aver inventato questo modo di dire. Speciale. Dicitura. Ogni parola che penso mi suona come straniera.
Ho bisogno di tutto perché ho il frigo vuoto da giorni. Mia madre non sta bene e non è passata questa settimana coi viveri e i buoni consigli. L’ultima volta ha lasciato un breviario e lasagne nel forno.
Mi blocco davanti al banco del pesce. Una sogliola ai ferri, magari. Prendo il numerino e mi guardo attorno. Paziente, mi metto in fila ed aspetto pensando ad un buon vino da abbinare.
Qualcuno mi tocca la spalla. Mi giro di tre quarti sperando in un errore: “Buongiorno, è da un po’ che non la vedo”. Chi mi parla è una donnina sorridente. E’ la proprietaria dell’edicola del mio quartiere, una cinquantenne un po’ stempiata, sempre gentile e bendisposta a chiacchierare con chiunque le capiti di incontrare.
“Buongiorno”, rispondo senza tono e guardo il contenuto del mio carrello in cerca di un convenevole qualunque.
“Ha visto quanta gente?”, mi risponde senza accorgersi del fastidio che non mi curo di occultare e continua: “E’ che domani è festa e sarà chiuso. Io torno adesso dal mare e ho tutto da comprare. Mai che mio marito mi dia una mano in casa! Penso sempre a tutto io. D’altra parte questi uomini…”. Prende fiato e ignorando il mio silenzio insiste: “E lei? Come va?”. Proprio non ce la fa a non posare lo sguardo sul mio addome, ma apprezzo il tentativo.
“Benissimo, grazie“. Mi sforzo appena in un sorriso, mi tolgo dalla fila, afferro da uno scaffale due buste di salmone affumicato e, piegando il capo come ad abbozzare un saluto, passo oltre.
Svolto nella prima corsia a sinistra e aggiungo al carrello due vasetti di yogurt alla frutta, una scatola di cereali, poi giro a destra, afferro due birre e, infine, una scatola di Tampax.
Non guardo in faccia la ragazza alla cassa mentre pago e faccio finta di aver fretta.
La borsa della spesa non è troppo pesante. Mentre cammino verso casa riesco a fumarmi una sigaretta. Il sole è tiepido ed ho voglia di sentirmelo in faccia. Taglio per il parco e mi siedo, a finir di fumare, su una panchina.
Un uomo è fermo davanti al prato con un guinzaglio in mano. Sembra fissarmi. Mi scappa dalla bocca: “E’ troppo piccolo per poter essere mio figlio”. Non sono sicura di aver parlato. Forse non ha sentito. Io ogni caso prendo la spesa e, di corsa, me ne vado.
Ancora pochi metri e sono a casa.
Li ho visti già dal fondo della strada. Metto gli occhiali scuri e mi faccio largo tra i giornalisti che mi chiedono che cosa provo. Non sono domande da fare. Lasciatemi in pace. Perfavore.
Chiudo il cancello ed entro in casa.
Apro il frigo per sistemare la birra. Non ti ho nemmeno dato un nome. Lascio aperto lo sportello, prendo il cellulare e chiamo l’ospedale: “Vengo a prenderlo domani”.
“Nessuno le ha ancora detto che è una… femminuccia?”

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“Lo so che hai paura, bambolina”. Le passo la mano tra i capelli e cerco di rassicurarla con un sorriso.
“E allora se lo sai, perché ci devo andare? Sappiamo cosa succederà”, mi rimprovera, seria, la sua vocina.
“Non possiamo saperlo, per questo devi entrare. Non sarà così terribile”. Mi accorgo che sta tremando e non sono più sicura di ciò che sto facendo. Forse dovrei mettere in moto la macchina e riportarla a casa, al sicuro; e invece le dico: “Devi abituarti a loro. Non puoi startene sempre per conto tuo”. La accarezzo di nuovo e proseguo, come se fosse la cosa più normale del mondo: ”E loro devono abituarsi a te”.
Le trema la voce e stringe forte i pugni quando mi chiede: “Perché?” e i suoi: “Non voglio, non voglio!” sono una supplica che mi stringe il cuore
“Piccolina, devi andare. E’ giusto così. Fidati di me. Ti farai tanti amici e imparerai milioni di cose nuove”.
“Tu sei mia amica e potresti insegnarmi tutto tu…”.
“Vengo a prenderti alle 12.30. Sarò qui che ti aspetto. Avanti, andiamo, ti accompagno. E’ tardi”. Scendiamo dalla macchina e le prendo la mano. Sento le piume morbide che ha sulle nocche arruffarsi: è segno che è arrabbiata con me. Non parliamo più mentre attraversiamo il parcheggio davanti alla scuola. Non vorrei farti soffrirei, colombella, ma cos’altro posso fare? Ci avviciniamo alla piccola folla di mamme e bambini in grembiulino che al nostro passaggio si zittiscono. Due o tre bambini ci indicano. Siamo abituate a questo, possiamo farcela, non è così terribile. Saliamo le scale. Sono quindici interminabili gradini in cima ai quali c’è l’ingresso della scuola. Una maestra ci sorride e, stoica, maschera la sorpresa con sforzi sovrumani. Eppure dovrebbero averla avvertita. “Eccoci”, le dico. “Prima B, da questa parte”, trilla stucchevole senza bisogno di consultare la lista, indicandoci una fila di bambini ammutoliti. Mi chino verso la mia bolina de nata e le sussurro ancora: “Non sarà così terribile. Vai”. Lei mi pianta gli occhi negli occhi come fa sempre, quando mento.
Si volta e mi punisce col silenzio.
Decido di trascorrere le quattro ore che mi separano da lei con le mani appoggiate sul volante mentre la penso intensamente. Mi illudo così di sostenerla e di farla sentire, in qualche modo, meno sola.
Sono le 12 e trentun minuti quando la vedo sbucare dal cancello e correre più forte che può verso l’auto. Lo zainetto rosa che ha in spalla le impedisce i movimenti. Lo abbiamo comprato appena tornate dal Portogallo, nello Store delle Winx che hanno aperto da poco, in centro. Penso a quando ridevamo come matte, una volta uscite dal negozio, imitando l’espressione che aveva la commessa: ci fissava allucinata come fossimo ectoplasmi. Non ci interessavano i pensieri che la gente faceva su di noi. Eravamo insieme ed eravamo forti. Eravamo felici. La scuola era soltanto nebbia all’orizzonte ; forse, avvicinandosi, si sarebbe dissipata.
E invece il momento era arrivato, solido come cemento. Seduta sul sedile a braccia serrate tenta di trattenere i singhiozzi.
“Perché mi hai messo al mondo, mamma?”, bisbiglia, “Eh mamma, perché?”

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Mi sveglia il jingle dell’edizione straordinaria del telegiornale. Ormai è un’abitudine addormentarmi davanti al televisore acceso. Cerco sul tavolino la tazza del the, tra la lampada e il giornale, ma sento che ormai si è raffreddato.
Batto le mani ed accendo le luci di questa nuova Domotica, questa casa automatizzata, che mi ha regalato mia figlia. Voglio alzarmi e prepararmi qualcos’altro di caldo. In questo bunker tecnologico e protettivo sarebbe sufficiente parlare ad alta voce e l’acqua si metterebbe a bollire, ma io conservo i miei riti e l’idea di parlare con una casa prosegue, benché io ci abiti già da un anno, ad apparirmi ridicola.
Attira la mia attenzione il volto dello speaker che appare sul monitor: è teso e la sua voce è allarmata. Mio dio, cos’altro è successo stanotte? Mi blocco in mezzo alla stanza con il mug gelido in mano. Il paese è dilaniato da una vergognosa guerra civile e la strategia del terrore e tornata, ancora una volta, di moda. C’è chi si difende accumulando denaro soddisfacendo la richiesta di raffinatissime magliette, veicoli di slogan luccicanti. La gente urla nelle piazze: “Habere non haberi”, ma anche: “Tiocfaidh àr là” e non sa, davvero non sa, quel che dice. Due settimane fa, quindici persone sono state calpestate dalla folla, troppo intenta a scandire “I have a dream” per prestare attenzione ai gemiti dei corpi sui quali marciavano a tempo dei tamburi battuti da chi faceva da controcanto sillabando: “Mai mulà, Tegn dur”. La vita è triste e incomprensibile, di questi tempi, e non solo. Ma questa non è una notizia da edizione straordinaria. Abbiamo smesso da tempo, noi telespettatori, di allarmarci di questo stato di allarme costante. Infatti lo speaker farfuglia sconvolto di qualcosa di diverso, di qualcosa che riuscirà a far gemere di orrore noi cittadini abituati ormai a tutto, di un omicidio abominevole ed efferato, così ingiusto da spalancare all’unisono gli occhi e le bocche di noi, amiche e amici da casa. Deve essere stato assassinato qualcuno di importante perché, di omicidi qualunque, i media hanno smesso di parlarne da anni.
Mi riaccomodo sulla poltrona in attesa di sentire il nome della vittima illustre. Mi preparo: sarà un duro colpo.
Non riesco a seguire il preambolo del giornalista: forse è la tensione o forse sono le bio-onde emesse dalla mia casa intelligente a interferire con il mio apparecchio acustico che emette un crepitio intollerabile. Lo spengo ed attendo che le immagini sostituiscano il silenzio.
Appaiono sequenze di repertorio, che ritraggono Eva, mia figlia, su fondali di cui già sono al corrente: ospedali, scuole, campi di nomadi o profughi e su un palco acclamata dalla folla, l'8 dicembre appena trascorso. Mio dio, cos’altro è successo stanotte?
Sullo schermo compare il titolo del servizio: “Assassinata il candidato alla presidenza della Società delle Nazioni”.
La tazza mi sfugge di mano. Cade sul pavimento e si rompe a metà lasciando il poco the rimasto libero di infilarsi tra gli interstizi ecologici delle piastrelle in carbonato di calcio.
Provo a seguire il movimento delle labbra cocciniglie dell’ inviata Speciale, appostata all’ingresso della casa di Eva, per carpire qualche parola di smentita.
Il filo della mia speranza cede, quando la telecamera zooma impietosa sulla lettiga che fa capolino dalla porta di casa che si apre, curiosamente, verso l’esterno.
Vedo i boccoli biondi di Eva ciondolare dalla barella spinta verso il cortile da due uomini in camice bianco. Non vedo nient’altro di lei perché è stata con cura coperta da un compassionevole lenzuolo.
Per qualche secondo i miei pensieri rimangono inceppati in quei cardini innaturali, montati al contrario, come si monta, a favor di pubblico, un set teatrale.
La macchina da presa indugia sul braccio scivolato da sotto il lenzuolo a causa dei movimenti sussultori che, la lettiga e il corpo, subiscono nello scendere dai quindici scalini dell’ingresso della casa di Eva.
E’ il primo piano su una nocca piumata a far sgorgare, dopo 35 anni, il mio pianto.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Come iam iam ti dissi, finisci per strozzare il fluire del tuo narrare causa fretta. Capita anche a me, capita a tutti, forse non capitò a Gramsci o a Dio... e la lunghezza dei loro vaniloqui vanificò l'effetto. Ma l'icasticità è una dote rara... comunque lo sai, il racconto mi piace, le foti pure, un po' sensuali... eh, eh... ciao

Anonimo ha detto...

Il tuo è uno dei racconti che più mi piace, nell'antologia. Forse è vero, come si diceva nell'altro commento, che gli spostamenti diacronici così repentini strozzano il narrare, ma mi sembra che questo piccoli difetto non corrompa la fluidità generale del racconto. Ti leggerò spesso.
Ciao,

Michele